Tra le righe
“Il lavoro nobilita l’uomo”, ma non esageriamo…
La rubrica di Enrico Neiretti
Ho sempre pensato che uno degli indicatori più evidenti del progresso sociale fosse l’emancipazione dell’individuo, nella sua sfera personale, dal proprio ruolo lavorativo e sociale.
Intendiamoci, non voglio certo svilire l’importanza dell’attività lavorativa, e men che meno ridurre i pubblici incarichi ad azioni da svolgere nel minor tempo possibile.
Ma esiste secondo me una netta linea di demarcazione che separa il tempo dedicato agli impegni lavorativi e pubblici da quello che invece si deve alla propria famiglia, ai propri affetti, alle proprie passioni; in definitiva a sé stessi.
Questo tempo, nella mia visione di vita, gode di un’intangibilità che mi viene da definire sacrale. Credo fermamente che la dimensione privata non possa mai essere considerata alla mercé di imposizioni esterne, di supposti impegni inderogabili, di sedicenti urgenze, di abusate emergenze.
Proprio l’inflazione dell’aggettivo “urgente”, che ormai viene usato come sostantivo, è invece purtroppo il segno di una distorsione nel concetto di gestione del tempo, che va in direzione opposta a quella che io -e spero non soltanto io- auspico e ritengo essere il segno di un buon vivere: l’equilibrio tra il tempo pubblico e quello personale.
Purtroppo invece la patologia dell’urgenza ammorba il nostro modo di vivere.
Capita sempre più spesso, nell’esperienza quotidiana, nelle letture di attualità, nella riflessione sul rapporto tra giovani e lavoro, persino nelle spicce cronache politiche locali, di imbattersi in forzature del concetto di tempo, in pretese da parte di qualcuno di determinare tempi e modi delle azioni altrui, in letture assai anacronistiche del concetto di impegno.
Ecco, pare che per taluni il tempo personale sia una variabile poco importante, un fattore che può essere compresso a piacimento quando la situazione lo richiede.
Naturalmente nessuna persona dotata di senso di responsabilità cercherebbe di tirarsi indietro qualora davvero la situazione richiedesse un supplemento di impegno e di presenza.
Ma il problema è che molto spesso queste supposte urgenze ed emergenze non sono altro che ordinarie attività dilatate e diluite da insipienza, verbosità, inefficienza, mancanza di visione, errori di programmazione.
Ma forse la tara principale sta addirittura a monte di queste goffaggini che spesso rendono difficoltoso l’espletamento delle normali attività a cui siamo chiamati a far fronte; la vera tara -dicevo- sta nella visione “sacrificale” dell’impegno, nella convinzione che soltanto la fatica e la rinuncia a parte di sé possano rendere davvero effettivo e tangibile il peraltro discutibile detto “il lavoro nobilita l’uomo”.
Lo psicanalista Massimo Recalcati definisce il concetto di “fantasma sacrificale”, una prospettiva in cui la “legge” tende a sottomettere la vita.
Scrive Recalcati nell’introduzione al suo libro “Contro il Sacrificio”(Raffaello Cortina Editore – 2017): «La passione per il sacrificio è solo umana. Gli uomini non si sono limitati a sacrificare sull’altare animali offerti ai loro Dei, ma hanno sacrificato su quell’altare anche la loro vita. È il caso dell’uomo ipermorale che sacrifica il suo desiderio, o del martire del terrorismo che si immola per una Causa. Il sacrificio non è una semplice rinuncia al soddisfacimento ma una forma masochistica del soddisfacimento. È un fantasma che proviene da una interpretazione solo colpevolizzante del cristianesimo. La psicoanalisi, insieme alla parola più profonda di Gesù, si impegna invece a liberare la vita dal peso del sacrificio. Il che comporta un diverso pensiero della Legge: l’uomo non è schiavo della Legge perché la Legge – come sostiene la lezione cristiana e quella di Lacan – non è fatta che per l’uomo».
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