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Tra le righe

L’infinito è là in fondo, la lezione di Gabriele Basilico

La rubrica di Enrico Neiretti

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Qualche sera fa è andato in onda su Sky Arte il film documentario del regista Stefano Santamato dal titolo “Basilico. L’infinito è là in fondo”, (è ancora disponibile on demand), dedicato appunto alla figura e all’opera del grande fotografo milanese Gabriele Basilico.

A più di dieci anni dalla scomparsa dell’artista, il suo lavoro continua ad essere il simbolo della fotografia dei luoghi. Architetto di formazione e fotografo sulla spinta della passione documentaria verso i movimenti giovanili dei primi anni ’70, Basilico approda allo studio degli spazi e alla fotografia urbana alla fine di quel decennio, scattando una serie di fotografie con protagoniste le fabbriche milanesi ritratte in giornate di festa, in una dimensione di fissità quasi irreale capace però di svelare con chiarezza il rapporto tra fabbrica e luogo e di far intendere le dinamiche sociali che caratterizzano i luoghi di lavoro.

Basilico raccolse i suoi scatti nel libro “Milano. Ritratti di fabbriche”, pubblicato nel 1983; un lavoro che lo consacrò tra i grandi della fotografia italiana ed europea. Raccontò quell’esperienza con queste parole: «Nella magica sospensione luminosa della Pasqua 1978, spostandomi nella città di zona in zona, pianta alla mano mi sono ritrovato nella zona 14, tra via Ripamonti e via Ortles, in un’area caratterizzata prevalentemente da costruzioni industriali. Per la prima volta ho “visto” le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu, dove la visione consueta diventava improvvisamente inusuale. Ho visto così, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento quotidiano, senza le auto parcheggiate, senza gente, senza rumori. Ho visto l’architettura riproporsi, filtrata dalla luce, in modo scenografico e monumentale. Ho rivisto attraverso il mirino della mia Nikon, le immagini nascere da un’operazione di astrazione, di isolamento, di assenza. Ho individuato un metodo per capire e per scoprire ciò che a volte si osserva in modo confuso e miope».

Un racconto anch’esso nitido, chiarissimo, dove la chiarezza è resa attraverso i riferimenti topografici e l’evocazione della luce, una luce intensa, inconsueta, capace di disvelare la forma degli edifici e dei luoghi.

Alcuni anni più tardi, nel 1989, dopo una serie di lavori dal grande valore documentale e narrativo (uno tra tutti la “Mission Photographique de la D.A.T.A.R.”, un progetto documentaristico patrocinato da governo francese), Basilico porta l’obiettivo del suo banco ottico proprio nel biellese, come se l’esplorazione di questo territorio fosse una tappa inevitabile di quel percorso iniziato fotografando le fabbriche di Milano; il lavoro di documentazione, incentrato soprattutto sull’archeologia industriale, culminerà con una mostra e con l’edizione di un libro in edizione limitata che si chiamerà “Esplorazioni di fabbriche”.

La lezione di Basilico si pone con un concetto che qualcuno ha riassunto come “progettualità dello sguardo”: secondo Basilico uno sguardo lento, attento, uno sguardo che lascia aperta la possibilità di un dialogo con l’oggetto dell’osservazione, è un modo per restituire ai luoghi una bellezza anche laddove questa bellezza non è mai stata riconosciuta.

Non guardare di più ma guardare meglio, è il riassunto di una sua riflessione sull’inflazione di immagini veloci che ci travolgono ogni giorno.

Oggi che la fotografia scorre velocissima sotto il nostro sguardo distratto, oggi che i luoghi si attraversano senza quasi porre attenzione alla narrazione che essi testimoniano, la lezione di Basilico si pone ancora con grande attualità.

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