Tra le righe
Non lasciamo che Biella diventi un “nonluogo”
Qualche settimana fa lo scrittore Paolo Cognetti, autore -tra gli altri- del romanzo “Le otto montagne” da cui è stato tratto un bellissimo film (ne parlammo qui un po’ di tempo fa), ha partecipato come ospite ad una trasmissione radiofonica di Radio Deejay.
In quell’occasione Cognetti ha presentato il suo nuovo romanzo, “Giù nella valle” edito da Einaudi. Un romanzo duro, la storia conflittuale di due fratelli sullo sfondo di un luogo altrettanto duro e cupo: questo luogo, la località dove Cognetti ambienta la sua vicenda, è la Valsesia.
Nella sua presentazione radiofonica lo scrittore ha scherzato su questa ambientazione sottolineando in modo un po’ malizioso e un po’ ironico gli aspetti di durezza e di cupezza della valle: dal clima piovoso ai capannoni industriali, dai bowling ai bar dove ci si imbatte in incalliti bevitori, fino al culto di un lavoro fondato sul sacrificio di sé che diventa tratto distintivo, Cognetti ha elencato gli elementi “scenografici” che fanno della bassa Valsesia lo sfondo perfetto per la sua storia aspra.
Parecchi si sono sentiti chiamati in causa e sono insorti, agitando una polemica piuttosto risentita nei confronti dello scrittore.
Ora, mi interessa poco dar conto della polemica, anche perché la vicenda è già finita nell’archivio delle notizie vecchie, sostituita da nuove discussioni e da altre incalzanti polemiche.
Però il racconto di quel fondovalle cupo, cementificato, disseminato di capannoni alcuni dei quali recenti e addobbati di una pomposità che vorrebbe farli assurgere al rango di cattedrali del lavoro, altri invece abbandonati, spogliati della loro effimera estetica funzionale e del loro ruolo produttivo, tristi testimoni di un tempo passato e di una obsolescenza precoce, mi ha fatto pensare.
Mi ha fatto pensare perché da sempre provo un certo disagio di fronte alle foci delle vallate che diventano pianura eruttando brutti pezzi di cemento, in uno scempio territoriale che si fatica ad identificare come tributo da pagare al progresso.
Ho passato tutta la mia vita professionale in zone industriali; ho attraversato e attraverso quotidianamente questi spazi sacrificati alle logiche della produzione. Mi sono sentito fagocitato in questa estrema periferia grigio cemento, fredda e umida d’inverno, soffocante in estate. Una periferia che è diventata ormai un’immensa macroregione, una piana colonizzata da meste costruzioni che non sono più soltanto quelle cattedrali del lavoro, ma oggi sono soprattutto cattedrali del consumo, di una sorta di divertimento eterodiretto, di un’evasione che paradossalmente si compie più o meno negli stessi luoghi della reclusione lavorativa.
O meglio, negli stessi nonluoghi per usare una fortunata espressione dell’antropologo francese Marc Augè (recentemente scomparso): quegli spazi in cui la nozione della provvisorietà e del passaggio veloce è connaturata alla loro funzione, nonluoghi in cui la socialità si fa forzosa, in cui i tratti della storia e della specificità dei territori non esistono perché l’estetica e le funzioni sono standardizzate.
Per contro, per reazione, o forse per una cifra di appartenenza a qualche coordinata atavica, ho preso invece a percorrere nel mio tempo libero le vallate più strette e tortuose, le vie che attraversano i boschi e collegano tra di loro piccoli meravigliosi borghi dove il tempo pare non avere inferto ferite, le strade della montagna che svelano la bellezza e il respiro di un territorio ancora ricco di patrimonio naturale e culturale.
Ecco, mi capita spesso di paragonare questi due mondi che convivono a pochi chilometri di distanza. Mi capita di metterli a confronto nella mia esperienza quotidiana, mi capita di metterli altresì a confronto quando sento parlare di sviluppo del biellese, di prospettive di crescita, di futuro. Riflessioni che quasi sempre vertono su vie di comunicazione, nuovi insediamenti commerciali, dinamiche che tendono a spostare il baricentro di Biella sempre più in giù, come se la città non avesse altro destino che srotolarsi lungo la pianura dando le spalle al proprio territorio collinare e sacrificando a questo moto di allargamento addirittura il proprio cuore antico.
E mi chiedo se davvero questo processo sia ineludibile. Se veramente il destino dei nostri luoghi sia quello di omologarsi alla grande estetica padana fatta di un’alternanza di stabilimenti produttivi, centri commerciali, cinema multisala, fast food, o se ci sia invece la possibilità di pensare ad un modello di sviluppo diverso, basato sulla valorizzazione dei territori ricchi di storia, sull’accessibilità e la cura della montagna, sul legame tra la città capoluogo e la propria provincia.
Io preferisco pensare ad una Biella fulcro di un territorio consapevole della propria specificità, piuttosto che ad un punto in una mappa di collegamenti tra nonluoghi.
Enrico Neiretti
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Fulvia
17 Dicembre 2023 at 0:54
Per me Biella è già un non luogo
Rosario Pucciarelli
19 Dicembre 2023 at 17:41
E se si tornasse tout court alla pecora biellese e alla pezzata rossa di Oropa, dal Mombarone al Monte Barone e Valsesia?