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Una cosa è certa, non andrà tutto bene

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Fonzarelli di provincia

BIELLA – Volevo starne fuori e astrarmi dal chiacchiericcio, ostinato e quotidiano, farcito di parole inutili e spesso di cretinate senza redenzione. Pensavo di avere, e che si avesse, già scritto abbastanza nei mesi passati, quando lo stupore d’un inedita situazione da un lato c’inebetiva e dall’altro ci riempiva la penna di domande. Ma è difficile mantenere il controllo e agire sulle parole di un diverso sentire, d’uno sguardo sull’altro che non sia il solito e non sia polemica e paura: forse non c’è davvero altro da dire, altro da raccontare che non sia questo. E allora parliamo di Covid, e della sua rappresentazione. Alla ricerca di senso e di buonsenso, da contrapporre al controsenso e alla perdita di senso.

Ieri anche Biella ha avuto la sua piazza, la sua protesta contro l’ennesimo decreto di quest’emergenza che non cessa di esserlo. Quello che però dovrebbe essere chiaro, più chiaro e più evidente alla ragione, è che l’unica protesta sensata dovrebbe essere quella contro il coronavirus che ci ha aggrediti e continua a farlo, con subdole modalità. Contro di lui proprio intendo, quale organismo vivente che turba il vivere sociale e la sociale economia. Avrebbe davvero, paradossalmente, più senso.

Perché un contagio si ferma soltanto isolando le persone infette. Non c’è altro provvedimento, nazionale regionale o comunale, amministrativo o scientifico, che possa ottenere lo stesso risultato. Questo, e soltanto questo, è l’assunto dal quale dovremmo partire per ragionare e non per sragionare a muzzo, coltivando ognuno il suo piccolo o grande interesse.

Ed è un ragionamento che non si può presumere individuale, ma sociale soltanto: di comunità. Resta da vedere quanto ci interessa esserlo, una comunità. O, quantomeno, quanto ci interessa esserlo in modo socialmente responsabile e non solo quando ne ricaviamo una qualsiasi utilità.

Abbiamo cestinato mestamente l’ingenua ipocrisia dell’andrà tutto bene, ma nemmeno ci applaudiamo più a vicenda dai balconi, per poi rientrare in casa e chattare cuoricini a medici e paramedici, eroi dimenticati in trincea sanitaria. Ci sarebbe da protestare sì, eccome no. Ma non contro questo decreto e contro un’inevitabile chiusura. Ci sarebbe da essere incazzati per l’inedia governativa, incapace di organizzarsi in questi mesi al peggio che sarebbe certamente venuto e ora è qua. Ci sarebbe da incazzarsi con l’inedia amministrativa dei sindaci e dei loro vice buoni solo per distribuire mascherine regalo, che prima rivendicavano autonomia e ora la rimpallano. Ci sarebbe da incazzarsi con i responsabili d’ogni sanità regionale preoccupati solo di salvare la faccia e di capitalizzare qualche voto al prossimo giro. Infine, e lo lascio per ultimo solo per dargli maggior evidenza, ci sarebbe da incazzarsi con noi stessi per l’incoscienza con la quale abbiamo affrontato e vissuto l’estate e il nostro quotidiano. Incapaci come siamo stati di accettare e di vivere un cambiamento, un diverso modo di abitare il tempo e lo spazio.

Mentre la questione è maledettamente complicata – e lo sarà per lungo tempo – ci stiamo dando alla rivendicazione personalizzata: perché chiudere i parrucchieri, che motivo c’è di limitare i ristoranti e mandarli a letto senza cena, perché chiudere i teatri dove la cultura è buona e poi ci kura con premura, perché… e qui possiamo aggiungere una categoria a caso impegnata a salvaguardare se stessa, ma non la pelle dei cittadini.

Tutti con la scusa buona, economica o sanitaria che sia, dimentichi di ciò che ho scritto qualche riga sopra: un’epidemia si ferma solo isolando le persone infette. Perché un vaccino non l’abbiamo, perché non possiamo sostenere una sanità al collasso e dimenticare d’incanto tutte le altre patologie e la prevenzione da dedicare ad esse. E lo dico ora, nel mese rosa di Lilt, che ricorda quanto questo virus e questa nostra insofferenza sociale stiano già ammazzando chi non riesce ad accedere a cure e prevenzione oncologica.

Abbiamo innescato la solita guerra frutto di estrema autoreferenzialità, affine alla sindrome Nimby già nota per passate cause sociali. Ci sfiora mai il dubbio che sia un crash di sistema, un suo fallimento, se basta una prevedibile pandemia a farlo vacillare? Prima la crisi “economica” del 2008 e ora questo: due collassi nel giro di poco più di un decennio.

Chiudo con una provocazione, che non lo è mica poi tanto: perché i garantiti e gli ipergarantiti non rinunciano, in una sorta di contratto di solidarietà, alla tredicesima a favore di un fondo sociale che possa garantire a tutti un lockdown più sereno? Perché invece fanno finta di non esistere, e magari si lamentano pure di non poter andare al ristorante? Io questo ho: solo domande, non soluzioni.

Lele Ghisio

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2 Commenti

1 Commento

  1. Marzia Pozzato

    2 Novembre 2020 at 13:40

    Finalmente una riflessione sensata e coerente

  2. stefano prior

    2 Novembre 2020 at 13:58

    La soluzione c’è ma è creduta solo da quelli che in questo mondo vivono ma senza appartenervi. Ed è di dominio pubblico la soluzione seppur dimenticata persino ad Oropa!
    La situazione peggiorerà ulteriormente e non perchè questo virus sia particolarmente peggiore di un qualsiasi virus influenzale ma bensì perchè davvero è bastato poco per convincere il gregge al bordo del precipizio. Ed ora che le vittime di cattivi pastori si affacciano al baratro arriverà qualcosa di ancor più pericoloso e saranno in tanti a precipitare. Anche quelli che mondanamente si ergono a maitre a penser. Fateci un pensiero a queste parole.

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