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Salvo mi insegnò che la guerra si vince con la pace

Il ricordo di Edoardo Tagliani

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Era un uomo grande e grosso, Salvatore Azzarello. Che sapeva far rotolare gli uomini piccoli su un tappeto verde. Tutti vestiti di un bianco poco comprensibile per chi non era dei loro. E cinture colorate per dire chi era quello che aveva imparato di più e quello che doveva ancora imparare. Era Maestro di Judo, sesto Dan. Prendeva i bimbi per il bavero, li sollevava come fossero piume, li poggiava piano come fossero uova, e spiegava loro la misteriosa complessità dell’esistere. Usava la forza istintiva dell’altro per mutarla in forza buona del tutto. I bimbi ridevano, lui rideva, tutti imparavano come farsi del bene invece che il male.

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Faceva lo stesso nel suo lavoro di notte. Trasportava i principi sani dell’arte marziale nella vita quotidiana. Dove gli toccava regolare guerre piccine e gestire anime incazzate. Al dormitorio pubblico di Riva, a Biella. Era un uomo grande e grosso che si prese anche qualche cazzotto, da quei poveri cristi. Ma proprio perché sapeva che erano poveri cristi, mai li denunciò, mai li malmenò, anche se avrebbe potuto farli rotolare a terra con molta più violenza di un bimbo sul tatami. Li accolse. Ci parlò. Li perdonò. Usò la loro forza cattiva per farla sua, mutandola in buona. Non continuò solo a vivere con loro, ma continuò ad aiutarli. Per trovare una via almeno vagamente accettabile sulla quale muovere i passi obbligati dell’andare avanti. Salvo era i servizi sociali e il welfare e un fratello. Tutti insieme. Dal tramonto all’alba, nel quartiere vecchio della città.

Nacque da qualche parte e morì da qualche parte. Come se qualcosa potesse importare, dove vagì e dove sospirò. A ben vedere, poco importa anche dove visse. Importa come, visse. Era un uomo grande e grosso. Il male lo consumò in poche, pochissime settimane. Nei muscoli di certo. Nei pensieri mai. L’ultimo esame ai suoi giovani alunni, lo fece on-line, dal letto di ospedale. Di certo, un modo per salutarli senza lacrime né fronzoli.

Quando lo conobbi, avevo 16 anni. «Ti interessa imparare un gioco?». Mi mise sotto il naso una scacchiera enorme. Con tante di quelle pedine che non sapevi contarle. «Si chiama Go. Ti può insegnare una cosa. Se ti difendi senza astio invece che attaccare, avrai la meglio sull’avversario che ti attacca. La guerra si vince con la pace. Negli scacchi devi mangiare tutti, uccidere tutti. Anche nella dama. Nel Go, vince chi ammazza meno. Vuoi imparare? ». Ero ancora piccolo, nonostante un 43 di scarpa, e lui già grande e grosso. Ci avrei messo anni a capire. Capii camminando il mondo, tra un teatro di conflitto e un altro. Il nemico lo devi sconfiggere senza trasformarti in nemico a tua volta. Lo devi sconfiggere usando la sua violenza per tramutarla in calma, in soluzione, in vittoria.

Mi scolpì quattro pipe, che ancora oggi, talvolta, fumo. Con quelle mani incredibili, capaci di costruire di tutto. Canoe, tazze cotte in forni da ceramica, sedie per riposarsi. Qualsiasi cosa avesse a che fare con la filosofia del judoka, l’Azzarello la imparava con una costanza, una passione e un’abilità affatto genetica o casuale, ma scaturita dalla volontà. Rideva sempre, sotto quel sigaro e quei baffi curati per tanti anni. Lo incontrai al Piazzo appena dopo la diagnosi di diabete: «Vedi, Edo. Devo girare con questo marsupio alla pancia. Una noia. Ho dentro le medicine, le iniezioni da tenere al fresco«. Risposi: «E’ un problema?». Di rimando: «Ti ho forse detto che è un problema? Ho detto che è una rottura, non un problema». Un anno dopo, venne diagnosticato il diabete anche a me. Sì, Salvo. Grazie. Per la millesima volta. Una rottura, non un problema. Solo un’altra mossa di una partita di Go.

Come farsi stendere su un tatami. Come prendersi due cazzotti in Riva. Come soffrire. Come morire, anche. Solo rotture, non problemi. L’unico vero problema è non sapere come affrontare i problemi. Salvatore Azzarello, ha concentrato tutta la sua vita non nell’apprendere l’abilità scaltra di evitare i problemi, ma nella meravigliosa, difficile, dolorosa arte di saperli affrontare.

Ci si vede. Prepara quattro casse di Lauretana con le bolle. Quella che mi piace. Me le devi. Per la disidratazione. Ho pianto come un cretino, scrivendo. Non farmi scherzi, Maestro. Quattro casse di Lauretana. Dopo, discuteremo di ogni infinito resto. Disegnando confini di pietre bianche e nere su un goban.
Edoardo Tagliani

Edoardo Tagliani

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