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Il ventilatore del sindaco

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Fonzarelli di provincia

BIELLA – Crisi di governo e crisi di nervi a parte, per quel che c’è da fare e per quel che ci resta da dire, oggi facciamo del metagiornalismo. Perché stavolta gli sbiellati siamo noi: il mio Direttore e io. Ognuno a modo suo, ma questo lo sapevamo già. Ed è anche divertente raccontarlo un po’. La scorsa settimana parlavo su questo giornale del cappello del sindaco.

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E lui ha rilanciato, nel numero successivo, con lo scappellamento. A destra, a sinistra: un po’ come fosse antani, com’è solito fare. S’è intenerito a tutto questo sparlare, a volte a proposito e a volte meno, del nostro commander in chief.

Il Direttore dice di fango e ventilatore: facciamo che un ventilatore acceso si trova sempre, ma il fango ce l’ha messo tutto lui. Il Sindaco, intendo. Perché, a parte l’accoppiata che serba un innaturale rancore dai cossatesi tempi andati e si apposta in notturna sperando di coglierlo in fallo con una foto inopportunity, che mi sembrano i due vecchietti dei Muppets ma in versione molto più incattivita e priva di senso, anche dell’umore, il resto del fango se lo butta da solo, nel ventilatore acceso.

Un po’ pacioccone, parecchio naïf; certamente simpatico e con tutte le qualità elencate dal Direttore, ma fare il sindaco non è esattamente come partecipare a un concorso di bellezza, dove, mal che vada, ti porti a casa la fascia di miss Simpatia. È un po’ un’altra cosa, pure se negli ultimi anni la politica s’è spesso confusa con lo spettacolo. Perché se il mio Direttore lascia intendere che la forma non sia sostanza, io avrei un’idea un po’ diversa: sia della forma che della sostanza.

Ho avuto nonni contadini, e ho ancora nitido il ricordo del nonno che, la domenica mattina, indossava il suo vestito migliore, col cappello e la cravatta, per andare in paese. Prima la messa e poi la partita a carte con gli amici al bar del centro, fino all’ora di pranzo. La sua sostanza e la sua dignità stavano proprio dentro a quella forma: al rispetto che dedicava agli altri e a se stesso nella presentabilità di un abito. Nulla a che fare con l’ipocrisia di certi doppiopetti che si vedono in giro, certamente. Ma nemmeno con la faciloneria ipocrita di altri, maschera buona giusto a Carnevale. Dentro a quell’abito ci stava un decoro sincero, non l’abile trasformismo di chi veste casual per mostrarsi vicino al popolo e se ne va dispensando pacche sulle spalle per le vie della città.

Ora che di metafore ne abbiamo sfoderate abbastanza, mi chiedo se davvero il Direttore sia convinto che l’attuale sindaco sia completamente avulso dal clima salottiero che lui descrive. Non ce lo vedo gaffeggiare a oltranza, ma munito d’aureola. Me lo vedo più come l’ennesimo prodotto, però in linea coi tempi, dello stesso humus culturale dei precedenti. Sono anche convinto che, a dispetto dell’apparenza, non possa fare più danno dei suoi colleghi venuti prima, e, ahimè, nemmeno dei conseguenti mi sa. Non passa giorno, almeno dalla crisi finanziaria del 2007, che a dispensare ricette per uscire da ogni difficoltà sociale, politica ed economica siano gli stessi che le hanno, più o meno inconsciamente, indotte. Se siamo quello che siamo, e se siamo messi come siamo, è certamente per responsabilità da cercare nel passato e non nel presente o nel futuro. Sa più di errore di sistema, giusto per ritornare alle metafore.

La politica ha sempre giocato con le parole, tanto da coniare il neologismo “politichese” per significare il suo linguaggio. Ora gioca anche con le immagini e gli slogan facili, dei selfie e dei meme buoni da dimenticare nel giro di un post sui social. Si è fatta, nonostante le apparenze, più subdola di allora. Ma le logiche salottiere, caro Direttore, mi sa proprio che siano rimaste le stesse. O altre se ne siano create per un gattopardesco cambiamento. Tra cui l’idea di un primo cittadino gaffeur non sembra nemmeno essere la peggio, visto l’effetto che ha fatto pure su di te, o mio Direttore. Che comunque non finirò mai di ringraziare per la libertà che mi concedi e ti concedi, per dire e dirci le cose che diciamo.

Lele Ghisio

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