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Tra le righe

Storia semiseria del mio addio ai contanti

Tra le righe di Enrico Neiretti

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enrico neiretti

BIELLA – Una sera di alcuni anni fa mi fermai al casello autostradale di Carisio; era una sera d’inverno, faceva freddo e una bruma gelata avvolgeva ogni cosa diffondendo le luci giallognole dei lampioni della barriera che sbattevano sull’asfalto viscido.
Abbassai il finestrino per pagare la tratta: la voce metallica e nasale della macchinetta mi intimò, con il tono arrogante impostato da qualche feroce programmatore, di inserire il biglietto e poi i contanti o la tessera.

L’importo era su per giù di sei euro: maneggiai velocemente nel portafogli e vidi che avevo soltanto biglietti da venti. Così infilai una banconota nella fessura tribolando un poco perché era spiegazzata e consunta.

La macchinetta esitò un po’, tentò di rifiutare il logoro foglio di cartamoneta, poi finalmente lo ingurgitò. Un secondo dopo sentii il fragore di una cascata metallica che riempiva la vaschetta del resto. Sembrava di aver tirato, con la complicità della dea fortuna, la leva di una slot machine; ma il risultato era tutt’altro che l’esaudimento di un desiderio.

La vigliacca macchinetta mi aveva restituito il resto in forma di un mucchio di monetine; iniziai a prendere manciate di dischetti metallici facendo contorsioni con il braccio fuori dal finestrino; intanto la nebbia gelida e carica di miasmi penetrava nell’abitacolo dell’auto.

Alla fine avevo il portaoggetti del cruscotto pieno di monete, il braccio anchilosato, l’abitacolo congelato e addosso la sgradevolissima sensazione di un incidente che aveva ammorbato la parte finale di una giornata per il resto molto piacevole.

Colpa della stupidità delle macchine dirà il lettore.

Invece no, devo dissentire.

Qualche mese dopo mi trovai a transitare lungo la tangenziale nord di Milano. Mi fermai al casello per il pedaggio e il display della stazione mi indicò la tariffa: un euro e venti centesimi. Guardai il portaoggetti dell’auto: c’era solo una moneta da un euro; rovistai nel portamonete del portafogli ma riuscii a racimolare soltanto una monetina da dieci centesimi. Rassegnato sfilai una banconota, di nuovo da venti euro, e la porsi al casellante.

Come in un remake a tinte fosche di un film già visto, iniziati a sentire il tintinnare di monete nella vaschetta metallica della garitta di pagamento. Il farabutto mi stava riempiendo di spiccioli: io ero lì -quella volta era estate- con il finestrino abbassato, il caldo torrido e umido della pianura padana che mi entrava in auto, il nervoso che mi montava condensandosi in perle di sudore sulla fronte. «Dai finestrini passa odor di mare, diesel, merda, morte e vita» avrebbe detto Luciano Ligabue.

Con una contorsione ancora più innaturale rispetto alla volta precedente, iniziai a ritirare le monete sotto lo sguardo sadico del casellante: manciate di infime monetine a fronte della mia -questa volta- liscia banconota da venti euro. Ad un certo punto mi cadde a terra il contenuto di una delle ultime manciate: aver dovuto aprire la portiera e raccogliere le misere monetine cadute a terra; invece un sussulto di rabbia, o di dignità, o forse di snobismo, mi spinsero ad ingranare la prima, chiudere il finestrino e ripartire a tutta velocità imprecando tra me e me -sì lo confesso- alla volta del casellante. Che si tenesse pure quei quattro spiccioli che avevo lasciato sdegnosamente sul piatto del resto.

Ecco, fu quella la volta che decisi di abbandonare il contante.

Basta macchinette stupide, basta casellanti sadici.

Basta cercare disperatamente una moneta per parcheggiare in zona blu.

Basta inserire l’unica moneta da due euro a disposizione per fermarsi mezz’ora nel parcheggio a pagamento.

Basta sopportare gli sguardi venati di disappunto «scusi di moneta non li ha?» quando cercavo di pagare articoli di poco conto con le solite banconote da venti (no, non le stampo io).

Oggi pago tutto con transazioni elettroniche: i pedaggi li pago con il “bip” della scatoletta grigia appesa al parabrezza dell’auto, i parcheggi con un’app installata sul telefono. Quasi tutti gli acquisti li regolo con un veloce passaggio del bancomat o della carta.

E vivo meglio, vivo più leggero, quando torno da un acquisto non suono più come un maialino salvadanaio.

Tutte le attività di acquisto e di pagamento sono snelle, senza rovistamenti di tasche, controllo del resto o ritualità simili.

Certo, questo un piccolo costo ce l’ha: pagare i pedaggi ed i parcheggi attraverso un dispositivo richiede un sovrapprezzo. Che peraltro credo di recuperare evitando sprechi alle macchinette dei parcheggi. E in ogni caso vale la semplificazione della vita che questi sistemi mi consentono.

Si dibatte molto in questi giorni sulle forme di pagamento negli esercizi commerciali: si paventano, come di consueto, scenari giganteschi e apocalittici di interessi colossali a favore ora delle banche, ora dell’evasione fiscale.

Io qualche idea a proposito ce l’ho. Ma si tratta di supposizioni e non mi interessa ingrossare il fiume già impetuoso del “si dice”.

Però, come consumatore, mi sento di schierarmi senza il minimo dubbio dalla parte del pagamento elettronico. Per me è una risorsa importante nel semplificarmi la vita.

E tanto mi basta.

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