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Eventi & Cultura

Castello di Rivoli, cuore d’Europa

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Una piccola impresa culturale tra le più innovative e ambiziose del continente

Anna è una di quelle persone che comunicano intelligenza, sarà per quel suo sorriso appena leggibile con cui considera le cose, e ti guarda. O ascolta. È anche una di quelle persone che sviluppano un ineffabile rapporto con l'organizzazione, l'impresa o l'istituzione per cui lavorano: un rapporto che alla fine non si può più distinguere tra l'una e l'altra. Rappresenta in qualche modo la sburocrazia, cioè appunto il fatto che il rapporto è tra persone. E dire che l'organizzazione per cui lavora ha un nome vagamente inquietante per una certa sfumatura kafkiana: il Castello di Rivoli. Per l'esattezza è il Dipartimento Educazione del Museo d'Arte Contemporanea. Perché una volta, prima della fotografia, l'arte bastava vederla, per capirla, almeno un po'. La sua “bellezza” era una cosa importante, anzi, ne era un elemento essenziale.
Alla fine dell'800 le cose cominciarono a farsi più difficili. Gli aristocratici cominciavano a rivolgersi ai nuovi mezzi moderni per immortalare la loro vicinanza agli dei, e così i borghesi che volevano imitarli. Per un giovane artista di Parigi le cose si complicavano assai. E cominciarono a rappresentare questa loro condizione di isolamento, tanto da creare opere che non rappresentavano nulla, anzi: null'altro che loro stessi e le loro vicende personali, fino alle impressioni profonde del loro animo. Quella storia non si conclude mai del tutto e molti artisti ancora oggi sono imprigionati in quello scacco. Si sono così allontanati dalla società che li circonda e che non li capisce. Le loro opere risultano indecifrabili. A volte addirittura irritanti o sconvolgenti. Poi, però, il borghese capisce che questa storia rappresenta un grande insegnamento, cioè che l'uomo moderno non ha bisogno di altro che di sé. Che la sua capacità conquista il mondo e il futuro (-ismo) senza che nessuno possa porre freno al suo progresso. Il capitalismo adora questa storia. È la sua, dice. Per questo il mercato se ne appropria e a prezzi sempre più strabilianti assume le opere di quegli artisti e spesso anche la loro anima.
C'è chi sa cavalcare questa tigre, come Andy Warhol e chi, come Pollock, ne viene distrutto. In ogni caso, il mondo vede una proliferazione continua e incessante di opere d'arte (suggellate dal sistema del mercato dell'arte) sempre più autoreferenziali e incomprensibili. Ma, come dicevamo, sono perfettamente logiche e coerenti. Il pubblico? Il pubblico non sa più cosa pensare. Le opere non si capiscono, questo è sicuro. Ma non si può negare che diffondano intorno a sé un'aura indicibile. I Musei, nati in quei decenni, tesaurizzano queste opere e le pongono sul livello dei capolavori classici. Anche questo contribuisce a diffondere nel pubblico un misto di fascinazione oscura e di repulsione irritata. Finché, in ambito anglosassone, non si incomincia a spiegare, al pubblico, che cosa significhino quelle opere, perché l'artista abbia usato quel materiale o quel processo e come l'abbia fatto e dove e quando… insomma, tra l'opera e il pubblico nasce qualcosa che prima non c'era, un medium che traduce e trasporta il senso dell'opera stessa. Si parla, così, di mediation. I Musei devono così sviluppare questa funzione educativa che sembra essenziale al progetto di quell'arte “assolutamente individuale”. Ci sono tentativi di resistere. La Bauhaus, per esempio. Ma, come sappiamo, vince il capitalismo e, mentre si svuotano le chiese, si riempiono le sue cattedrali, i Musei.

In Italia, una vera tradizione di mediazione, o come si chiama da noi, Didattica, non si diffonde fino all'apertura del più importante Museo di Arte Contemporanea italiano, appunto il Castello di Rivoli. E lei, Anna, la troviamo lì, fin dall'inizio, a occuparsi di quello che sarebbe diventato il polmone di un organismo che avrebbe portato l'Italia, e Torino, al livello di una capitale europea, per forse due decenni. Non è azzardato dire che il Dipartimento Educazione (così lo ha rinominato Anna) ha giocato un ruolo spesso paritetico con la programmazione delle Mostre e l'attività curatoriale proprio per fare del Castello un anticastello, quasi una piazza. E non è un caso se Anna e il gineceo che si è riunito intorno a lei negli anni, con Paola, Brunella e Barbara a condurre con le lei fila di una piccola impresa culturale tra le più innovative e ambiziose d'Europa, lo troviamo un po' in tutta Italia, soprattutto col Progetto “Italiae, 150 eventi in piazza per ridisegnare l'Italia”.

Dice cose come questa, Anna: “Attraverso il nostro operare ci piace poter affermare che i musei sono spazi pubblici al servizio del pubblico, che le nostre proposte dentro e fuori dal museo sono finalizzate a democratizzare l’arte e la cultura contemporanea, erroneamente definite élitarie.”
Se vi capita di passare dall'Ospedale Sant'Anna di Torino o nell'Asilo di Via Principe Tommaso, tanto per fare 2 esempi tra centinaia ormai, non avrete difficoltà a intendere che cosa significhi l'espressione democratizzare l'arte.

Ma se pensate che questo si faccia attraverso una rinuncia a un senso profondo e civile del proprio lavoro, oppure banalizzando ogni cosa e espressione o gettando la spugna, basterà sentirle dire cose come questa, mentre sorride appena, come quando ti parla del lievito madre con cui fa il pane da forse vent'anni, così, con naturalezza: “Educare è sempre un atto politico perché corrisponde a un’idea di persona, cittadino, società. Per noi la garanzia di diritti inalienabili nel contesto civile. Il diritto alla cultura e alla cittadinanza, nei luoghi dell’arte, nel tempo presente.”

Paolo Naldini

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