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Cronaca

Vivevano segregate in un appartamento del centro e si prostituivano

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Vivevano segregate in un appartamento del centro e si prostituivano

Due anni e due mesi di reclusione, oltre a una multa di 3mila euro. E’ la pena inflitta mercoledì mattina a Liu Li, 36enne originaria della Cina che viveva in Lombardia. Il giudice dell’udienza preliminare, Arianna Pisano, l’ha ritenuta responsabile di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione in concorso con altre due persone.
Secondo il pubblico ministero era lei a gestire l’appartamento di via Lamarmora (solo quello) nel quale più donne vendevano il proprio corpo. Era lei a occuparsi della pubblicazione degli annunci su internet, a rispondere al telefono, a contrattare con i clienti, a fissare gli appuntamenti e a farsi consegnare una parte dei guadagni dalle prostitute al termine della prestazione.
Era lei a provvedere ai bisogni delle donne, che vivevano praticamente segregate in casa, acquistando i viveri e i farmaci dei quali avevano bisogno.
Liu Li era stata l’ultima a cadere nella rete della polizia, in seguito all’indagine che aveva portato allo smantellamento di due case a luci rosse in città (come detto, soltanto uno dei due appartamenti era gestito dalla donna). Resasi irreperibile, a distanza di due mesi e mezzo era stata rintracciata e arrestata a Catania. Su di lei pendeva infatti un ordine di custodia cautelare in carcere
L’indagine
A smantellare il giro di prostituzione era stata la Squadra Mobile, al termine di una delicata indagine iniziata nel 2017, che aveva portato a scoprire la presenza nel centro cittadino di due appartamenti in cui donne di nazionalità cinese e clandestine vivevano quasi come recluse. Le ragazze, chiamate “operaie”, non potevano infatti nemmeno uscire di casa per fare la spesa e non avevano mai contatti telefonici con i clienti. Rimanevano nell’appartamento per circa un mese prima di essere mandate altrove, come in una sorta di turnazione.
Al termine della lunga e complessa indagine, che aveva portato a scoprire pure altre case a Cremona, Udine e Roma, erano finite nei guai anche due sorelle che si occupavano invece di un alloggio di via Trento, oltre ad altre persone indagate per favoreggiamento.

La lunga attività di investigazione era stata condotta dalla prima sezione della Squadra Mobile, quella che si occupa di criminalità organizzata e straniera, in collaborazione con l’aliquota della polizia di Stato della sezione di polizia giudiziaria della procura di Biella.
L’esposto
Tutto era iniziato nei primi mesi del 2017, con un esposto del proprietario dell’appartamento di via Lamarmora. Dopo aver ricevuto le lamentele di alcuni condomini, che protestavano per il continuo via-vai, l’uomo aveva iniziato a insospettirsi. I dubbi erano ulteriormente aumentati quando si era reso conto che i bonifici per l’affitto risultavano effettuati da cittadini cinesi, nonostante lui avesse dato l’alloggio in locazione a un italiano. Si era quindi rivolto alle forze dell’ordine.
Una volta compreso che non si trattava di una semplice truffa, ma di un possibile giro di prostituzione, gli specialisti di Questura e Procura avevano iniziato a indagare. «Innanzitutto abbiamo controllato gli annunci su siti e giornali – spiegò a suo tempo il commissario capo Marika Viscovo, dirigente della Squadra Mobile -. Una volta trovati i contatti telefonici, alcuni agenti hanno chiamato fingendosi clienti e si sono fatti dare un appuntamento. Prima in via Lamarmora, poi nella casa di via Trento».
I poliziotti avevano così potuto verificare i sospetti ed effettuare le prime foto degli appartamenti, prima di andarsene accampando delle scuse per evitare la prestazione sessuale. Queste azioni permisero di ricostruire il modus operandi delle sfruttatrici. Come detto, erano loro a rispondere alle telefonate, a stabilire i prezzi e a fissare gli appuntamenti, che successivamente comunicavano alle ragazze. Quando il cliente arrivava sotto casa, doveva telefonare nuovamente. A rispondere erano sempre loro che poi, solo a quel punto, dicevano alle ragazze di aprire la porta.

Segregate in casa a turno
Una volta compreso quello che accadeva negli alloggi, era iniziata la seconda fase dell’indagine, forse la più complessa e delicata. Rimaneva infatti da dare nomi e volti a vittime e carnefici, impresa non facile dato che quasi tutti i protagonisti erano cittadini cinesi presenti irregolarmente in Italia. «E’ stato difficile identificarli – confermò Viscovo nel corso della conferenza stampa conclusiva -, anche perché si spostavano molto sul territorio. Abbiamo avviato un’attività di intercettazione, sentito le donne che le gestivano e che le chiamavano “operaie”. Era tutto organizzato direttamente dalle “titolari”».
L’appartamento di via Lamarmora
I due alloggi erano gestiti da persone diverse, che si conoscevano e avevano contratti tra loro, ma apparentemente operavano autonomamente.
La sfruttatrice dell’alloggio di via Lamarmora era caduta in trappola grazie alle intercettazioni. Nel corso di una telefonata con una banca in Cina, infatti, aveva comunicato nome e dati anagrafici, tra i quali la data di nascita.
L’ipotesi di un’organizzazione
Nonostante le diverse case a luci rosse cinesi scoperte nel nord Italia in quel periodo fossero apparentemente scollegate tra loro, gli investigatori erano convinti che in qualche modo potessero dipendere da un’unica regia. «Quanto scoperto finora – aveva spiegato il procuratore Teresa Angela Camelio a questo proposito – deve essere considerato come un reato spia. Poi è verosimile pensare che dietro possa esserci un’organizzazione criminale più grande. Questi episodi potrebbero essere spia di fenomeni e reati più gravi».
«Intanto – aveva aggiunto il questore Nicola Alfredo Parisi – abbiamo interrotto l’attività di sfruttamento. E già questo è molto importante, perché si tratta di un reato particolarmente grave, che rappresenta l’annientamento della dignità della donna».

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