Attualità
Volontaria biellese trascorrerà due anni in Ecuador
Intervista a Maria Enoch, partita lo scorso 29 giugno con l’Operazione “Mato Grosso”, movimento di volontariato di ispirazione cattolica
È partita lo scorso 29 giugno per l’Ecuador e ci rimarrà per almeno due o tre anni. Maria Enoch, 31 anni, ha scelto di dedicare la propria vita, in questo specifico periodo, all’Operazione “Mato Grosso”, movimento di volontariato di ispirazione cattolica.
«Vivo nella casa parrocchiale della comunità che mi ospita, al servizio della gente. Faccio accoglienza, aiuto, ascolto, seguo i bambini e i ragazzi in oratorio, faccio di tutto, dalle attività educative alla carità pura, alle piccole manutenzioni – spiega -. Sono un po’ la mamma della casa. Siamo diversi volontari, ognuno fa la propria parte».
Maria, originaria di Candelo, ci racconta di aver frequentato il Liceo pedagogico di Biella e di essere affezionata alla comunità parrocchiale di frazione Castellengo di Cossato, retta dai parroci don Alberto Boschetto e don Marco Vitali.
«L’ho sempre frequentata, facendo catechismo e ricevendo i sacramenti. È la mia parrocchia del cuore – prosegue -. Dopo il diploma, sono andata per un po’ all’università, senza finirla. Ho trovato lavoro, a cui sono seguite tante attività. Quando sono partita la prima volta in missione avevo 22 anni, la seconda 26».
Maria, cosa ti ha spinto a fare l’esperienza?
«È un cammino, difficile da spiegare – dice -. Vuol dire operare con i poveri. In Italia, con le nostre iniziative, raccogliamo fondi per sostenere le missioni e dopo un po’ che lo si fa, viene il desiderio di conoscere le persone per cui ti attivi. La prima volta ci vai per scoprire e poi ci torni perché il desiderio più forte è regalare un pezzo della tua vita a loro. La mia è stata una decisione presa con gli amici più cari, come si fa con tutte le decisioni importanti della vita. Mi hanno aiutato a fare il salto. Partire per due anni vuol dire lasciare lavoro, amici e la famiglia. Fa strano raccontare dell’operazione “Mato Grosso” a chi non la conosce. È una medaglia con due facce, una italiana, i cui vari gruppi di giovani mettono a disposizione il loro tempo libero e, svolgendo piccoli lavori manuali, raccolgono fondi per sostenere le tante missioni all’estero, che è l’atra faccia. Tutto ciò fa scoprire cos’è la carità nei nostri paesi, nelle nostre parrocchie. Insieme, tutti smuoviamo montagne. È un’operazione che mi commuove. È la chiave di volta. Quando un ragazzo scopre la carità fa meraviglie. Ci tengo a dirlo per far capire che la nostra è una vocazione seria, fedele alla volontà di aiutare chi è in difficoltà».
Non vuole essere una provocazione, ma un chiarimento. Maria, come replichi all’affermazione di chi dice che la prima forma di carità si fa fuori dall’uscio di casa?
«È un’obiezione che ci fanno – conclude Maria Enoch -. Innanzitutto noi aiutiamo anche in Italia ed è la vita che porta in altri luoghi. Non posso essere fedele a trenta mariti, dico io, ne sposo uno e porto avanti il rapporto. Io sono stata presa per mano e sono stata portata in Ecuador. Ora non posso piantarli in asso. Vivo il Vangelo, che dice fai del bene e verrai ricambiato. Il bene si può fare ovunque. I poveri sono ovunque, con situazioni a volte peggiori in Italia rispetto ad altrove. Dobbiamo aprire il cuore e apprezzare, non dare priorità. Ognuno di noi possiede una vocazione. Nell’aiutare si apre un mondo. Sono stata al Sermig, punto di incontro fra culture, e ho fatto volontariato al quartiere Falchera, sempre a Torino. Tocchiamo realtà diverse, ma poi ne sosteniamo una. Io sono la prima ricca da convertire. Sto compiendo il mio cammino. Dio è buono e vuole bene a tutti. Ci ho pensato, esistono diversi modi di regalare noi stessi a chi ne ha bisogno, ma possono essere percorsi più solitari e io da sola non ce la faccio, mi sento limitata. Ho bisogno di fare gioco di squadra, di avere vicino gli amici che mi sostengono, che mi mettano in discussione e che mi facciano sognare ciò che faccio».
Anna Arietti
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