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«Una vita tra i carcerati»

Emilio Verrengia racconta i suoi 40 anni nella polizia penitenziaria: fu comandante a Biella

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una vita tra i carcerati

«Una vita tra i carcerati». Si chiama Emilio Verrengia e il suo nome è legato alla storia della polizia penitenziaria. Anche e forse soprattutto di Biella dove ha ricoperto i massimi incarichi.

«Una vita tra i carcerati»

Per quanto tempo ha lavorato in carcere?

Dalla fine del corso, che terminò il 19 settembre 1968, fino all’ottobre del 2007.

Ha fatto quindi tutta la carriera possibile.

Sì. Ho cominciato come agente di custodia, perché all’epoca il corpo era ancora militarizzato. Poi, con la riforma dell’11 gennaio 1991, il corpo fu smilitarizzato.

In quante carceri ha lavorato?

Le elenco: Tortona, Saluzzo, Aosta, Alba, di nuovo Aosta, Biella, Ivrea, Busto Arsizio e di nuovo Biella.

Qual è stato il carcere più duro in cui ha lavorato?

Non saprei distinguere. Tutti avevano tipologie diverse di detenuti, ma non ho mai avvertito una differenza sostanziale tra “più duro” o “meno duro”.

La recidiva in Italia tocca il 70%. Colpa dell’individuo, della società o del carcere?

In tutti questi anni ho visto che gli sforzi per il recupero ci sono stati e ci sono. Tutti gli operatori si prodigano con l’obiettivo di reinserire il soggetto nella società. Ma il carcere, da solo, non può garantire il cambiamento. Gli operatori penitenziari fanno quello che possono. La recidiva, secondo me, è più attribuibile al soggetto. Durante la detenzione molti si comportano bene, anche per ottenere benefici previsti dalla riforma del 1975: permessi, liberazione anticipata, ecc. Ma nessuno può garantire che una volta fuori non torni a delinquere.

C’era uno slogan ai suoi tempi: “vigilando redimere”. È ancora attuale?

Era uno dei motti del corpo militare degli agenti di custodia. C’era anche: “Se vuoi comandare, impara a obbedire”. Anche oggi, “vigilando redimere” è ancora valido in senso ideale: vigilare per aiutare il detenuto a redimersi. Ma è un lavoro incerto, fatto di speranze e non di certezze. L’agente penitenziario fa il possibile, ma il cambiamento dipende dal detenuto.

In carcere ci sono stato spesso come giornalista. C’era sempre un’aria tesa, di violenza. La percepiva?

Non parlerei proprio di violenza. Certo, ci sono stati episodi gravi, come nei tempi del terrorismo. Ricordo il carcere di Novara, anche se non ci ho lavorato, dove a un detenuto tagliarono la testa e ci giocarono a pallone nel cortile. Ai miei tempi non c’era il problema dei cellulari o della droga, ma c’erano i coltelli, rudimentali o introdotti da personale infedele.

Capitolo terrorismo. I brigatisti erano persone intelligenti, ma perché sono finiti a delinquere?

Era una contrapposizione politica, tipica degli anni ’60 e ’70. Il potere operaio si ribellava ai poteri forti, allo Stato, ai “padroni”. Da loro nacquero le frange estremiste.

Anni terribili.

Ricordo episodi come la strage di Bologna, la Banca dell’Agricoltura a Milano nel ’69… o ancora l’omicidio di Marco Biagi nel 2002. Falcone e Borsellino furono uccisi nel ’92. Quegli anni sono stati durissimi.

Ha parlato di droga e cellulari. Come entrano?

La droga può arrivare in tanti modi, anche tramite i familiari. Per i cellulari, oggi si usano persino i droni. È già successo anche a Biella. Oppure, più semplicemente c’è chi si fa corrompere tra il personale. Ricordo che a Saluzzo, un ausiliario introdusse sette coltelli a serramanico l’ultimo giorno di servizio, in cambio di due milioni di lire. Li rinvenni io stesso, sotto una piastrella

Non ha mai avuto paura?

Sinceramente, no. Forse ero incosciente. Ma quando indossi una divisa, non puoi permetterti di avere paura. Solo dopo, ripensandoci, mi sono reso conto di aver rischiato. Oggi forse c’è più da temere fuori che dentro.

Con i reati odiosi, quelli sui bambini, i minori? Come si comportava?

Il mio lavoro mi imponeva di trattare ogni detenuto allo stesso modo, indipendentemente dal reato. Non possiamo giudicare. C’è la legge per quello.

Ha conosciuto personaggi famosi della malavita?

Tanti, anche brigatisti. Ricordo Gionta, della camorra. Una cosa interessante: i terroristi neofascisti, a differenza dei brigatisti, a volte difendevano il personale. A Saluzzo un neofascista, Marzorati, intervenne per salvare un agente aggredito da un brigatista. Si ferì anche alla mano.

Ha mai visto in questi criminali un momento di bontà?

Bontà non direi. Si comportavano educatamente, sì, ma niente di più.

Ha mai avuto nostalgia del suo lavoro?

I primi anni sì. Oggi, dopo 17 anni, un po’ meno. Anche vedendo cosa è successo negli ultimi tempi ad esempio a Biella e Ivrea.

C’è un episodio di Biella che le è rimasto impresso?

Sì. L’evasione di un ergastolano, Minghella, il 2 gennaio 2003. Si sentì male alle 5.30 del mattino, fu portato in ospedale. Rientrava tutto nei protocolli. Alle 13, però, il cambio della scorta non avvenne correttamente: da tre agenti ne arrivarono due, uno dei quali se ne andò al bar. Minghella chiese di andare in bagno e riuscì a scappare da una finestra senza sbarre. Non era un’evasione pianificata. Vagò per ore, salì su un treno che pensava andasse a Torino, ma invece tornava verso Biella. Lo ripresero in serata.

Vuole dire qualcosa ai colleghi di Biella?

Sì: questo lavoro bisogna farlo con consapevolezza. Ogni mestiere ha i suoi rischi, nessuna professione è davvero sicura. Nemmeno l’impiegato di banca. Non scoraggiatevi.

Anche i suoi figli lavorano in polizia penitenziaria?

Sì. Entrambi ispettori. Uno è vice ispettore, l’altro appena diventato ispettore capo, ed è a Ivrea.

Se potesse tornare indietro, rifarebbe lo stesso lavoro?

Sì, senza dubbio. Non mi sono mai abbattuto, ho sempre cercato soluzioni. Fare il patetico non fa parte del mio carattere. Ho affrontato i problemi e ho fatto del mio meglio.

LEGGI ANCHE: Due cellulari scoperti in una cella del carcere di Biella

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