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«Torno a Beirut per continuare ad aiutare chi soffre»

L’intervista al biellese Marco Perini, che da anni vive e lavora in Libano

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Torno a Beirut per continuare ad aiutare

«Torno a Beirut per continuare ad aiutare chi soffre». Aveva iniziato il cammino della solidarietà internazionale da giovane: aspirante giornalista, aveva affiancato Lino Lava nelle sue missioni nella Jugoslavia dilaniata dalla guerra. Poi Marco Perini, giovane di Brusnengo, si recò a trovare un amico, Carlo Maria Zorzi, che lavorava per Avsi in Ruanda. E restò nel paese africano per 8 anni.

«Torno a Beirut per continuare ad aiutare chi soffre»

Oggi Marco vive in Libano, in un periodo delicatissimo e drammatico come quello attuale. Lavora per Avsi, ha una moglie libanese ed è coordinatore responsabile per la regione che raggruppa Iraq, Tunisia, Libia, Giordania, Siria e lo stesso Libano. Ha rapporti con le organizzazioni governative e ha alle spalle decenni di impegno per fare in modo che gli interventi siano organici ed efficaci.

Ma cos’è Avsi? Di cosa si occupa?

È una Osc, una organizzazione della società civile. Che opera in due direzioni: affrontare l’emergenza e favorire lo sviluppo. Operiamo da 50 anni in 40 Paesi di tutti i continenti ad esclusione soltanto dell’Oceania.

Emergenza e sviluppo. Ci sta un po’ di tutto.

Sono due obiettivi precisi e imprescindibili che applichiamo avendo sempre al centro la persona. A 360 gradi. È evidente che se un bambino ha fame e non può andare a scuola prima dobbiamo nutrirlo. Ma dobbiamo anche dargli la possibilità di imparare. E per farlo dobbiamo formare dei docenti e se i genitori non lavorano dobbiamo dare loro la formazione necessaria per svolgere un lavoro che sia fonte di reddito. In pratica non dobbiamo solo salvare una persona ma anche aiutarla a crescere.

In pratica il vecchio “aiutiamoli a casa loro” che è rimasto lettera morta.

Aiutiamoli ma non con atteggiamento colonialistico o “predatorio” come ha detto la premier Meloni. Il piano Mattei ha acceso grandi speranze in questo senso. Adesso però bisogna passare dalle parole ai fatti. Una collaborazione alla pari serve a tutti: all’Africa ma anche all’Italia. In questi giorni abbiamo contatti con molte associazioni di categoria in Italia. Cercano disperatamente mano d’opera per lavori che gli italiani hanno abbandonato. Nella logistica, ad esempio, servono tantissimi autisti. Se noi li formiamo in Africa non servono i barconi: possono arrivare in Italia con un contratto di lavoro in tasca. Pronti per poi tornare. Mio nonno se ne andò da Curino in Svizzera e quando tornò aprì una bella azienda.

Ma lei adesso torna in Libano?

Venerdì ho un volo della Middle East Airlines, l’unica compagnia che non ha interrotto le partenze per Beirut. Laggiù ci sono 40 persone che lavorano, perché stiamo seguendo 800 famiglie con 1.300 bambini che crescono grazie a 1.300 italiani, tra cui molti biellesi, che hanno aderito alle adozioni a distanza. Al costo di un caffè al giorno. Dobbiamo affrontare l’emergenza ma anche prepararci a quando si finirà di sparare. Adesso ai più poveri dobbiamo procurare aiuti e generi di prima necessità. E intanto organizzare terapie di gruppo soprattutto per i piccoli che sentono le bombe scoppiare vicino a casa. E non possono nemmeno andare a scuola così garantiamo kit di materiale scolastico ma anche ricariche per internet perché possano seguire lezioni online.

Bisogna credere che lei abbia fatto l’abitudine alla paura. È così?

Non si fa mai l’abitudine alla paura ed è bene che sia così per essere sempre attenti e ricordarsi che la porta che stai per aprire potrebbe essere minata.

Perché lo fa? Cosa la spinge?

Il desiderio di risarcire almeno in parte il debito di riconoscenza che ho per essere nato dalla parte “giusta” del Mediterraneo, di aver goduto di tante opportunità che chi è nato sulla sponda opposta non può avere. E poi oltre la paura ci sono momenti, emozioni che ripagano di tutto. In Siria collaborando con 3 ospedali e 5 dispensari cattolici abbiamo curato 160mila persone che non avrebbero ricevuto quelle cure. E quando abbiamo riaperto l’asilo di Qaraqosh in Iraq, dopo che se n’era andata l’Isis, vedere la gioia negli occhi dei bambini è stato indimenticabile.
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