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Siamo in uno stato di emergenza perenne

Pausa Caffé – Abbiamo creato gabbie invisibili con mille paletti e divieti

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Siamo in uno stato di emergenza perenne

“Dopo Ferragosto, con il primo temporale se ne andrà l’estate”, così in passato dicevano sorridendo i nostri vecchi. Non era un’emergenza, era un cambio di stagione. Ma quelli erano i tempi in cui l’estate, che scandiva le nostre vacanze scolastiche, pareva non finire mai. Tutto pareva non finire mai in quegli anni. Dal successo di una canzone, che durava mesi, alla vita stessa, che sembrava eterna. La parola “emergenza” evocava disastri immani.
Da ragazzo ricordo che la sentii usare, forse per la prima volta, in occasione dell’alluvione del 1968 che travolse le vallate del Biellese. Emergenza era un qualcosa di grave, di devastante, di assolutamente insolito e spaventoso. Ora nell’emergenza ci viviamo ogni giorno. E non solo per colpa del Covid che pare un’emergenza ormai un po’ frusta. Arriva l’estate e ci parlano dell’emergenza calore, giunge l’inverno e piombiamo nell’emergenza gelo. Salvo poi scoprire che non ci sono più le stagioni di una volta perché c’è l’emergenza clima.

E’ un’emergenza quella della siccità quando non piove per una settimana. Però se poi piove scatta l’emergenza maltempo. C’è l’emergenza migranti, ma anche quella demografica (troppi anziani e troppo pochi giovani). Siamo arrivati a parlare di emergenza dovuta all’impatto psicologico del ritorno a scuola o al lavoro dopo le vacanze. E poco alla volta ci stiamo ritrovando in uno stato di emergenza perenne, dimenticando che la vita stessa è fatta di tante piccole o grandi emergenze. E non da oggi, ma da quando esiste il mondo. Solo che oggi sono diventati emergenze anche i più piccoli disagi, quelli che un tempo, con la calma e l’ingegno, si risolvevano. Abbiamo creato gabbie invisibili con mille paletti e divieti entro le quali ci dibattiamo.
Un labirinto che chiamiamo burocrazia e che ci sta soffocando. Quella è la vera emergenza che troppo spesso impedisce adeguate e concrete soluzioni. Agli inizi del secolo scorso, un mio prozio che produceva farina facendo girare un mulino ad acqua, una domenica mattina, a messa, sentì dire dal parroco che nella notte era stato abbandonato sul sagrato della chiesa un neonato. “Lo prendo io!” esclamò, lui che di figli ne aveva già otto e aggiunse “dove ce ne stanno otto ce ne possono stare anche nove”. E crebbe quel bimbo come fosse stato un suo figliolo. Oggi lo avrebbero messo in galera. E poi si sarebbero scatenati i dibattiti televisivi sul dramma dell’abbandono dei minori. Definendo naturalmente anche quella, un’emergenza.
Giorgio Pezzana

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