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Quell’orologio del Piazzo fermo da un anno

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Tre minuti alle nove. Poco importa se quelle del mattino o della sera, l’importante è riflettere sul concetto di tempo. Almeno ogni tanto. Ogni quanto non so, visto la relatività della materia. “Nella dottrina platonica il tempo è misura solo del movimento del mondo materiale della generazione e della corruzione, in cui hanno senso i concetti di passato e di futuro rispetto all’eternità, eterno presente immobile, che compete alla sostanza eterna.”

Non che io voglia introdurre una disquisizione filosofica sul tema, non ne ho gli strumenti e la sufficiente competenza, ma queste poche righe di definizione riportate dalla Treccani sono abbastanza per definire i contorni della nostra piccola quotidianità, replicata all’infinito, con lo stesso passo della quotidianità di chi ci ha preceduto e di chi ci succederà. Questo almeno nel campo più “materiale” dell’idea che ce ne siamo fatti, mentre c’è da restare sicuramente fascinati dall’idea agostiniana del tempo come “misura dell’estensione dell’anima”, anche se, in questo caso, poco pertinente.

A prima vista può apparire una riflessione surreale, se posta come incipit a una rubrica di costume più che di altri indumenti. Eppure, per chi vive al Piazzo, può non sembrare così banale. Il tempo trascorso in Piazza Cisterna, sia quello passato ad aspettare l’amore della nostra vita o quello passato ad attendere la pizza d’asporto alla pizzeria all’angolo per una cena in solitudine, è sempre stato scandito dall’orologio a parete su Palazzo Cisterna.

Beh, forse “sempre” è un po’ esagerato, visto ciò di cui stiamo parlando: l’unica traccia che ho scovato durante una ricerca sommaria, è la testimonianza fotografica che lo colloca lì al suo posto almeno dal 1960. Che comunque totalizza una quota di tutto rispetto di ore e minuti passati di qua, a girare in tondo con le lancette. Certo che nel primo Novecento gli orologi pubblici avevano un senso che a noi oggi può sfuggire: non tutti avevano orologi al polso (erano regali di pregio per comunioni e cresime) e nessuno aveva un cellulare nel taschino per verificare lo stato delle notifiche e l’ora esatta.

Il tempo, dalle nostre parti, ce lo toccavano campanili di chiese e sirene di fabbrica, e aveva, per così dire, una dimensione pubblica, più che privata e intima. Ora, invece, resistono ancora poche sirene per pochi operai e i concerti di campane la domenica mattina, dopo le sette. Io vivo al Piazzo ormai da una quindicina d’anni, ed essendo stato quasi sempre refrattario all’uso degli orologi da polso mi sono affezionato a questo pubblico orologio da parete che, con una rapida occhiata durante il mio dimorare la piazza, mi rendeva perfettamente l’idea dei ritardi che avevo ormai accumulato nelle più varie occasioni.

Ora il mio grido disperato – forse più un gemito, giusto per non esagerare – nasce dalla quotidiana frustrazione di vedere quell’orologio fermo da, credo, un anno. O così almeno stimo il tempo passato dal suo arresto cardiaco, visto che lui non me lo può più scandire a dovere. Preciso, come fosse un’ora esatta, che in questa quindicina d’anni non era mai accaduto. Era capitato sì, di scoprirlo immobile alzando lo sguardo, ma nel giro di poco tempo – appunto! – la sua funzionalità veniva ripristinata. E mai m’è capitato di vedere l’anima gentile che provvedeva alla rianimazione, ma presumo che qualche dipendente comunale, o qualcosa che ci assomiglia, se ne sia preso cura.

Immaginatevi lo stupore che mi coglie nel vederlo ancora fermo dopo così tanto tempo – ancora! – nel momento in cui possiamo godere di un’amministrazione comunale sempre così lesta e sollecita nel tappare buchi a tempo pieno, dopo anni di opposizione caratterizzati da segnalazioni a ogni piè sospinto sulla qualunque. In ogni caso, nel bene e nel male, e soprattutto da fermo, quell’orologio scandisce anche il suo tempo dell’amministrare. Quello dell’amministrazione, intendo.

Non so bene se il suo stato catatonico, quello dell’orologio intendo, sia dovuto all’esaurimento di una batteria o a un problema elettrico, ma non dovrebbe trattarsi di una patologia mortale. Si tratta, più che altro, di dettagli e all’attenzione mancata nei loro riguardi, e il diavolo non c’entra. Soprattutto, capita in una piazza simbolo della città, pure a vocazione turistica.

C’è che questa città andrebbe amata nei suoi dettagli, così come questa città dovrebbe avere cura dei dettagli per i quali essere amata. La finisco qui, adesso che mancano ancora e sempre tre minuti alle nove. E non ditemi che se scrivo questo è perché non ho altro a cui pensare, perché io proprio non vedo l’ora. Quella giusta, almeno.

Lele Ghisio

 Lele Ghisio

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