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Quella contro il cancro non è una guerra

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Quella contro il cancro non è una guerra

LETTERA APERTA

Il cancro e l’importanza dell’uso delle parole:

«Quella contro i tumori non è una guerra»

 

«Quella contro il cancro non è una guerra. E i pazienti non sono vincitori o sconfitti, né necessariamente guerrieri o eroi»: lo dice Viola Erdini, presidente della Fondazione Tempia, dopo giorni in cui i tumori sono tornati sulle pagine dei media e dei social network, non sempre con toni e parole appropriati. Succede spesso che, con la morte di un personaggio famoso, come nel caso di Nadia Toffa che non aveva fatto mistero della sua sua malattia, la retorica della società scelga una scorciatoia e faccia indossare un’armatura alle persone che affrontano il cancro. Per alcuni può essere utile, ma per altri può risultare fin troppo pesante, fino a diventare la propria prigione.

Anche perché la “battaglia”, come ricorda con durezza proprio la storia di Nadia Toffa, non ha un esito scontato. E per quanto l’atteggiamento e lo stato d’animo possano contribuire ad affrontare al meglio anche il percorso di cura, non determinano necessariamente la buona riuscita di una terapia. «La battaglia di cui parlare» ricorda Pietro Presti, direttore generale della Fondazione Tempia «è di tipo culturale, che passa dalla comunicazione, alla conoscenza, per arrivare alla consapevolezza degli individui e, quindi, della società rispetto a temi complessi come quello della malattia, della qualità di cura e di vita, dei fattori di rischio, della prevenzione e, non ultimo, quello del fine vita. Una battaglia che ha come armi la comunicazione, le campagne di sensibilizzazione, la promozione di stili di vita, insieme al diritto e al dovere ad una corretta informazione».

La retorica “bellica” è un retaggio che arriva dal passato, quando il cancro era un nemico oscuro, così pericoloso da aver perfino paura a nominarlo (e quante volte, ancora adesso, sentiamo parlare di “male incurabile” o di “brutta malattia”). Perfino il Fondo Edo Tempia è nato scegliendo come slogan la “lotta contro i tumori”. Era il 1981 e da allora è stata percorsa molta strada: «Oggi sappiamo» aggiunge Presti «che il tumore non è un “nemico” che sta al di fuori di noi. Lo abbiamo ricercato e analizzato, imparato a conoscere e a riconoscere, e a prevenirlo e curarlo in molti casi. Sappiamo che non si tratta di un tumore, ma di diversi tumori che possono insorgere per combinazioni di fattori interni ed esterni alla persona e, in talune condizioni, come predisposizioni e fattori di rischio. Pertanto, il vero avversario non è più il tumore, ma tutto quello che non si fa, o che si dovrebbe fare, di più e meglio per prevenire e curare i tumori».

E poi ci sono i pazienti, che sono uomini, donne e bambini, a cui la malattia cambia radicalmente la vita. C’è chi la affronta a spada sguainata, come un guerriero. E c’è chi si sente improvvisamente fragile e indifeso. Ognuno ha il diritto di affrontare il suo percorso di malattia con la propria visione personale, con le proprie speranze, risorse e paure; e ognuno dovrebbe poter affrontare la malattia con il supporto e aiuto dei propri cari e con l’assistenza qualificata da parte di personale medico-sanitario, volontari e associazioni. Per la persona malata, questo percorso può essere vissuto in tanti modi: come una battaglia, una sfida, un ostacolo insormontabile da superare, oppure un labirinto, un incubo; per altri, una crisi positiva o negativa, un’opportunità di cambiamento, il proprio destino o una coincidenza; per altri ancora una sfortuna o un‘occasione di rinascita, un dramma incomprensibile oppure una conseguenza, un effetto di alcune cause conosciute (o sconosciute), una condanna o un mistero, e così via, con altre similitudini che ognuno può trovare nella propria storia, ognuno con la propria metafora.

«Ed è questo forse un tema di cui si parla ancora poco, quando parliamo di malati di cancro» conclude Presti. «Mi riferisco al diritto di essere malati, ovvero il diritto di vivere la propria esperienza di malattia liberi da pregiudizi altrui, senza sentirsi discriminati o emarginati, senza sentirsi addosso il peso di alcuna responsabilità di come si è scelto di affrontare emotivamente la propria malattia».

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