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Non posso immaginare il dolore di chi deve dire addio a distanza

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Mi chiamo Martina ho 34 anni e quando entrai la prima volta in una terapia intensiva ne avevo 29. Era la prima volta che mettevo piedi in questo reparto e la prima cosa che notai entrando furono le sedie, sedie brutte, nere disposte su tre lati come fossero in un salottino. Bizzarro pensai, a cosa serve in un reparto così un salottino dove uno vorrebbe fare tutto fuorché chiacchierare.  Qualcuno mi chiamò e lasciai le vecchie sedie dietro di me, entrai  in un ufficio dove qualcuno alto con un camice bianco parlava… parlava, parlava… Parole complicate, veloci, distinte, ma poi una di queste mi colpì. Era tra le ultime che mi disse prima di lasciarmi da sola con i miei pensieri e le mie paure…
ASPETTARE … il dottore andando via mi disse di aspettare… Un verbo curioso per noi che siamo figli della generazione di internet e Netflix, e che non sappiamo più cosa voglia dire, visto che controlliamo il tempo con il telecomando e abbiamo la padronanza del sapere sul cellulare.

Ma per chi come me non aveva mai frequentato la rianimazione è utile sapere che la parola d’ordine per il reparto è: ASPETTARE …
deve “ASPETTARE” e parlare con il dottore, bisogna “ASPETTARE”  il proprio turno”,  possiamo solo “ASPETTARE”  e vedere come va, vada a casa ad “ASPETTARE ” la chiamiamo noi se cambia qualcosa …

Concorderete con me che è quasi ironico che in un momento così delicato della propria vita, quando hai  qualcuno che ami in fin di vita attaccato a un tubo, e tu scaleresti anche l’Everest per lui, in realtà tutto quello che puoi fare è ASPETTARE.. è paradossale ma  la vita è questa è  ti siede su vecchie sedie quando e come lo decide lei..

ASPETTAI, ma penso  di essere rimasta a casa solo il primo giorno, e solo perché c’erano delle telefonate da fare, persone da avvisare e capire che tutto quello che stava succedendo al mio mondo era reale. Fu solo il secondo giorno,  quando scoprii che bisognava ASPETTARE  un orario preciso per entrare in reparto , che notai nella sala d’aspetto la macchinetta per le bevande. Non bevo il caffè non mi è mai piaciuto ma il the sì quello lo adoro, e quello delle macchinette è da sempre stato il mio preferito. Un sorriso apparve sul mio volto e decisi così  che essendo arrivata con sole  5 ore di anticipo, mi sarei concessa un the e seduta nel salottino mi misi ad ASPETTARE.

Il  terzo  giorno, conoscevo ormai  a memoria le regole ferree della rianimazione, e inoltre avevo scoperto che il letto di mio padre, per fortuna nella mia sfortuna era lato corridoio, e solo una parete e una finestra mi separavano da lui  in coma. Così  presi una di quelle vecchie  sedie dal  salottino della  sala d aspetto la misi sotto la finestrella della camera di mio papà, presi il mio the… e nel silenzio rotto solo dal rumore delle macchina che lo tenevano in vita, chiusi gli occhi e ASPETTAI anche quella mattina …

Il quarto e il quinto giorno ormai ero un abituè, avevo capito che se c’era la luce accesa nella stanza era buon segno, e voleva dire che era vivo, e anche ASPETTARE divento’ d’un tratto un sollievo.

Non solo, feci amicizia con tutte le infermiere e le signore delle pulizie,  che ogni tanto entravano e uscivano per le loro necessità dal reparto, ma mentre mi guardavano bere il mio the e mentre mi passavano accanto bastava  un loro sorriso o un piccolo cenno per capire che le cose non erano peggiorate nella notte e tutto sembrava andare bene … bastava … sì quando bastava!

Fu il settimo giorno, e ancora oggi non so se è stato fatto per amicizia o per arrendevolezza, che al mattino trovai la mia sedia lì dove l’avevo lasciata il giorno prima, era  lì fuori dalla sua  camera,  nessuno aveva cancellato il mio passaggio anzi era lì ad aspettarmi e li’ mi avrebbe aspettato per il resto delle mie mattine…

Passarono  10 giorni, dieci mattine, dieci colazioni di silenzio e di the. Era diventato il mio rito, il mio rifugio, la mia bolla… sedia – the – silenzio- aspettare … ogni singolo giorno fino a quando la mia bolla è scoppiata  in mille pezzi .  E quella  mattina, anche se lo sapevo già dalla sera prima, quando andai in rianimazione  trovai la luce della sua camera spenta e mi resi conto che sarebbe rimasta spenta per sempre. Presi comunque il mio the, piansi, riportai la mia sedia al suo posto nel salottino e andai via senza di te.

Perché vi ho raccontato tutto questo? Per farvi capire che se anche sento dire che sono persone anziane o di una certa età, sono sempre i padri o le madri di qualcuno. E sono soli senza le persone che amano. E se ne stanno andando per sempre.

Di quando è morto mio padre  ricordo poco, incredibile come la mente  si comporta in maniera strana  per attutire il dolore del lutto. Ma ricordo però il mio the. Ricordo che ero lì per lui a piangere, pregare,  sperare per lui . Io c’ero, ero lì !

E oggi la trieste realtà è che tutti quei figli, che tutti qui mariti e quelle mogli sono lontani dalle persone che amano e io sento di dover  ringraziare  per aver potuto aspettare con TE il giorno che te ne sei andato per sempre. Non posso immaginare il dolore di chi deve dire addio a distanza.

Tante  parole queste  per chiedere il permesso di poter  donare alla terapia intensiva dell’ospedale di Biella  dei tablet con schede prepagate a mio carico per poter permettere ai famigliari di poter salutare i loro cari. Con la speranza che per loro, che ad ogni chiamata ci sia sempre una luce accesa nelle camera delle persone che amano .

In memoria di mio padre Vincenzo.

Martina Franzone

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