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Noi biellesi non siamo capaci a essere migliori di così

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Fonzarelli di provincia

Non più isola felice, ma sempre oasi del desiderio. La smentita dei fatti alle intenzioni, per buone che siano. Senza rincorrere filosofi francesi, la nostra macchina desiderante ce la siamo costruita da noi, nel tempo. Si ha la sensazione che senza il desiderio non sapremmo essere, perderemmo di significanza. Eterni “wanna be”, giusto per dare una traduzione pop e contemporanea a quest’attitudine, con l’aspirazione vaga e mai raggiunta per contingenze e congiunzioni che presumiamo astrali, ma che in realtà ci riguardano più di quanto vorremmo.

Il desiderio lo rivendichiamo spesso, salvo poi attenderne la realizzazione con un fatalismo che non si addice, o non dovrebbe almeno, a chi spende a parole il proprio pragmatismo, ormai disperso sulla tela dei dipinti a olio d’altro tempo e d’altri secoli, quando si dipingevano telai e la realtà dell’epoca. Storie di tradizioni familiari, di rivoluzioni industriali d’importazione, di futurismi e post-futurismi a glorificare la macchina prima del corpo e dell’uomo.

Terra di manifattura e vagiti sindacali, di filantropie industriali ormai dismesse, del saper fare e disfare in egual misura. E ora territorio in cerca d’autore, abitato da corpi senza organi i cui testa e cuore, per non parlare del portafoglio, stanno altrove, intenti in inconciliabili tentativi di rimettersi insieme.

Non è un problema di politica: almeno non lo è soltanto, ma solo anche. Che qualche responsabilità toccherà ben prendersela a carico tutti insieme, per competenza e possibilità d’azione dell’essere cittadini e cittadinanza, comunità infine e non somma di individualità. Facile poi, essere o divenire, da così a latori di lamenti, esternazione d’eterna insoddisfazione di aspettative deluse e sogni mai avverati, e chissà se mai sognati davvero. Un peso lordo da cui detrarre la solita tara della generalizzazione, in ogni caso e per un’assoluzione a priori nell’eventualità.

L’elenco della spesa al supermercato della frustrazione è lungo di parecchio: tra basket e calcio di(s)messi, tra ferrovie e pedemontane sempre lì da venire. Ora è Pallacanestro Biella a gettare la spugna, con un tiro da tre a segno in un canestro divenuto cestino in cui depositare i desideri accartocciati. Questione di soldi, più che di responsabilità, in cui la politica c’entra poco o niente, se non per sommare ai corpi senza organi contenitori senza contenuti. Ci resta caricato sulle spalle un palasport vuoto, con l’eco rimasto dei cori della curva e una spesa di gestione che resterà insoluta e chissà come tornerà solvibile.

Una delusione per la città, che vede cancellato il proprio nome dal tabellone nazionale e dal suo contributo al marketing territoriale, quello che passa dallo sport di livello e dalla sua esposizione mediatica. E, cosa ancor più grave, toglie la speranza a un settore giovanile, rimasto orfano di possibilità e modelli che una prima squadra possono rappresentare.

Accade tutto a ridosso dell’operazione nostalgia – sacrosanta, per carità – che ha celebrato il 25° anniversario dallo scudetto dilettanti del 1996/97 della Biellese, che tra una ragione sociale e l’altra mai ha trovato la via per il calcio che conta. In una terra di provincia in cui il tempo libero è storicamente parificato alla nullafacenza, non stupisce. Nemmeno l’ombra dell’intenzione di declinarlo almeno nei termini di panem et circenses, se non qualche presidenza interessata alla visibilità elettorale di piccolo cabotaggio. A questo proposito, alcuni ricordano campagne elettorali che poi ci siamo dimenticati in fretta: quelle del peduncolo autostradale. Peduncolo sì, peduncolo no, peduncolo a destra, peduncolo a sinistra. Fino al nessun peduncolo e amici come prima.

L’impressione è che troppi ombelichi facciano mostra di sé e attirino gli sguardi di chi dovrebbe guardare ben oltre: mondo politico, per quel che gli compete e mondo imprenditoriale, per quel che gli compete. Sempre ben disposti a fornire soluzioni di parole e appartenenza orfane poi dei fatti. A questa città non ne va bene una, ma non può essere solo il fato a soffiare via sogni e ambizioni. È che probabilmente non ne siamo capaci, a essere migliori di così. A fare meglio di così.

Lele Ghisio

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