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La funivia di Oropa rischia di chiudere

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BIELLA – Colpo di grazia per la stagiona invernale di Bielmonte e di Oropa, non potrà che chiudersi con il segno pesantemente meno, in ragione della decisione del governo di tenere chiusi gli impianti fino al prossimo 15 febbraio, causa pandemia. Ma non solo.

Per Oropa si rischia anche di peggio. Lo spiega bene il presidente della Fondazione delle Funivie, Gionata Pirali: «Dopo l’appello per salvare la cestovia, di qualche anno fa, oggi, siamo a un passo dall’appello per salvare la funivia. Nel 2020 era infatti prevista la revisione, che oggi noi non siamo in grado di realizzare per problemi economici. I soci insomma, molto presto, dovranno decidere cosa fare di questo vero e proprio gioiello. Ma direi tutta la città e il territorio, di fronte alla nostra impossibilità di lavorare e d’incassare un po’ di soldi, devono decidere il futuro della funivia, che rischia di chiudere a partire dal gennaio 2022. Gli amministratori del Comune di Biella fanno la loro parte, ma la situazione non è facile neanche per loro. Il costo della revisione si aggira intorno ai 4,5 milioni di euro. Che dire? Sono davvero preoccupato».


«Era nell’aria. Mi aspettavo una decisione in questa direzione, purtroppo – dice Giampiero Orleoni, responsabile degli impianti a Bielmonte e anche presidente regionale dell’Arpiet, associazione che riunisce i responsabili degli impianti a fune del Piemonte -. Già la prima proroga mi era parsa un contentino per illuderci. Non avevo quindi molte aspettative. E’ evidente che il governo abbia deciso che il mondo della montagna sia sacrificabile, che non valga la pena aiutarci, perché non siamo abbastanza importanti sul piano economico. Peccato. Perché sono migliaia le persone che lavorano nel nostro settore. Mi pare una grande miopia agire così, con l’avallo di qualche giornale e giornalista. Ho letto infatti su “il Fatto Quotidiano” che gli sciatori sono tutti degli evasori o dei ricchi capricciosi. Di fronte a questa visione delle cose è difficile confrontarsi».


A Bielmonte, in queste ultime settimane, qualcosa si è però fatto. «Abbiamo tenuto aperto solo per gli agonisti e per l’attività degli Sci club. L’abbiamo fatto con la tenue speranza che ci facessero riaprire a pieno regime… E’ stato ed è anche un presidio rispetto alla montagna, perché abbiamo dipendenti che lavorano, tenendo attivo il servizio di eventuale salvataggio. Uno sforzo importante, che è stato vanificato da una decisione che non capiamo. E’ evidente che i contagi non avvengano in montagna, a meno di considerare montagna solo alcune immagini mostrate sui mass media, con code agli ingressi e file per fare gli skipass in determinate località».

E infine. «Noi a marzo chiudiamo la stagione – conclude Orleoni -. L’indicazione del governo quindi è assurda. Speriamo negli aiuti promessi, perché senza sarebbe un disastro. A Bielmonte possiamo contare su un aiuto importante della famiglia Zegna, ma non tutti in Piemonte hanno questa fortuna».


Rispetto alla stagione sciistica, l’analisi di Pirali è in linea con quella di Orleoni: «Da settembre ci sono due pesi e due misure, in Italia: con settori vessati e altri no. La ristorazione è stata colpita dalle misure anti-covid, ma anche gli impianti di sci. Le ragioni? Non le capisco. Nessuno può dimostrare che sia potenzialmente dannoso sciare e che rappresentino una fonte di pericolo le stazioni. E anche ammesso, ci diano regole ferree da rispettare. Invece il nulla, solo divieti. Si tratta di un’attività sportiva, all’aria aperta. Peccato».

E ancora: «Non mi spiego come il governo non si renda conto dei posti di lavoro a rischio. Fissare l’apertura delle piste al 15 febbraio, per noi, significa perdere un anno di lavoro, d’incassi. Già adesso, quanto non incassato per le feste di Natale, è irrecuperabile. Insomma siamo fermi da mesi. Sono stati pagati tutti gli stipendi e corrisposti i pagamenti delle rate dei debiti, ma fino a quando potremo resistere non lo so. Mi auguro che la politica dia delle risposte. E che gli aiuti di cui si parla siano veloci e adeguati».

Paolo La Bua

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