Attualità
Il Covid ci sta facendo scoprire quanto siamo fragili
BIELLA – “Quando veniva sera, con la carta blu pesante entro la quale era avvolto il poco zucchero che ci si poteva permettere, si facevano gli scuri per le finestre. Si fissavano con aghi, spilli, puntine da disegno, qualunque cosa che permettesse alla luce della casa di non filtrare all’esterno, perché se ciò fosse accaduto, si sarebbe stati esposti ai bombardamenti aerei… Quando bussavano all’uscio si cercava di mettere al sicuro le poche derrate che c’erano perché entravano senza chiedere permesso e rubavano tutto il cibo che trovavano. E non erano solo i tedeschi a farlo… Quando d’inverno scendeva la neve, le cascine dei dintorni uccidevano il bue o il maiale e dopo averli macellati, occultavano la carne sotto la neve perché si conservasse, per poi venderla alla borsa nera…”.
Questi sono alcuni dei racconti di guerra di mia madre, che visse un conflitto lungo cinque anni e che sommò miseria alla povertà. Eppure, c’era molta fermezza, molta lucidità ed anche molta serenità nei suoi ricordi.
Oggi, a poco più di un anno da una pandemia che ha certamente mietuto vittime e generato pesanti disagi, ma non ha lasciato persone senza cibo, al freddo ed al buio, sento dire che il 63 per cento della popolazione italiana starebbe accusando scompensi mentali più o meno seri per colpa del lockdown. Ciò significa che il 63 per cento della gente, nella migliore delle ipotesi, vive affanni, preoccupazioni gravi, ansie, sino ad arrivare alla depressione, all’etilismo, alla disperazione, a reazioni violente e sconsiderate al cospetto della situazione che stiamo vivendo. S’impennano le vendite di ansiolitici e purtroppo anche quelle di bevande alcoliche.
Anche il Biellese sta vivendo quasi quotidianamente episodi in qualche modo riconducibili all’etilismo. Sono passati 80 anni dal dramma del secondo conflitto mondiale, un paio di generazioni, non di più. Eppure sono bastati per mettere a nudo una fragilità, un’insicurezza, un’enfasi che troppo spesso va sopra le righe, per una situazione che riveste contorni di una innegabile gravità, ma che non è in alcun modo paragonabile ad un conflitto mondiale. Ed allora, si fa largo, complice anche il tempo di Quaresima, una domanda irriguardosa, scomoda, cattiva: non è forse che chi poco o nulla aveva da perdere negli anni dell’ultima guerra, alla fine temesse assai meno di chi invece oggi si è abituato ad un tenore di vita frequentemente al di sopra delle proprie possibilità? Fatte le dovute eccezioni, certo. I poveri ci sono ancora e la povertà vera non è una patologia sociale superata. Ma ciò non toglie che…
Giorgio Pezzana
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