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Ci prendevano in giro: “Quante storie per un’influenza”
Ci prendevano in giro: “Quante storie per un’influenza”
«All’inizio qui ci prendevano quasi in giro, adesso tutti hanno paura. L’Italia ha gestito la situazione meglio degli altri Paesi, visto dall’estero è ancora più evidente. Dobbiamo esserne orgogliosi».
È la testimonianza di Alessandro Rosmo, 24 anni, giovane biellese che da sei mesi vive a Berlino, dove si è trasferito per lavoro lo scorso settembre.
«Da queste parti l’intera storia è stata presa un po’ sottogamba, il problema è stato sottovalutato – racconta Alessandro, tecnico informatico in una banca da 1600 dipendenti -. Negli uffici noi italiani siamo tanti e inizialmente i colleghi degli altri Paesi ci facevano addirittura le battute: “Fate tutte queste storie per un’influenzina…”».
Non sempre è stato facile essere italiani nella capitale tedesca nelle prime settimane del contagio, si sono verificati anche episodi poco piacevoli: «Molte persone ci sono state parecchio vicino – continua il 24enne -. Quando in Italia la situazione è precipitata, in tanti si sono preoccupati per noi, sono venuti a chiedere come stessero le nostre famiglie e se potessero in qualche modo essere d’aiuto. Però, purtroppo, ci sono stati anche episodi di vero e proprio razzismo. Da un momento all’altro alcuni hanno iniziato a tenere le distanze e a guardarmi quasi con sospetto in quanto italiano. Certa gente si alzava e si allontanava da noi quando ci sentiva parlare nella nostra lingua. Gli idioti ci sono sempre».
Ora però è tutto cambiato. I contagi sono aumentati e il coronavirus fa paura anche in Germania: «Il quadro sta diventando drammatico – conferma Alessandro -, finalmente anche qui le persone si sono chiuse in casa, si stanno rendendo conto. Ufficialmente da noi andava tutto bene fino alla settimana scorsa. I tedeschi l’hanno presa molto più alla leggera del dovuto, tant’è che il sindaco di Berlino, il presidente del Land e il responsabile della Sanità fino alla fine della scorsa settimana dicevano “Qui non si chiude niente”. Pensavano che ci fosse una remota possibilità che si scatenasse il fenomeno, invece da domenica anche Berlino è in lock down. Da martedì è in vigore la chiusura quasi totale degli esercizi. Nella mia azienda stiamo lavorando in smart working; negli ultimi giorni, solo nella nostra banca, sono stati registrati sei casi».
In questa situazione Alessandro ha avuto modo di valutare anche l’efficienza e l’organizzazione delle istituzioni tedesche in un momento di emergenza. E il giudizio non è stato positivo: «La settimana scorsa sono rimasto a casa perché temevo di avere i sintomi: è stato impossibile per me ricevere un test ufficiale. Ho provato con i numeri di emergenza, le assicurazioni sanitarie private e pubbliche… nessuno sapeva come gestire la cosa. Ho chiamato subito tutte le autorità per chiedere di essere analizzato, perché stavo male e i sintomi corrispondevano, ma nessuno si è premurato di verificare. Ho trascorso sette ore, dalle 15,30 alle 22,30, al telefono con varie istituzioni: nessuno sapeva dare informazioni precise sul da farsi. Mi hanno richiamato dopo quattro giorni per dirmi che sarebbe potuto non essere coronavirus e quindi non mi avrebbero fatto il tampone».
«Alla fine fortunatamente – continua – è passata, era soltanto un’influenza stagionale un po’ più tosta del solito. La famosa precisione teutonica non esiste. L’Italia merita davvero un plauso per come la stanno gestendo lì i vari organismi».
Per Alessandro Rosmo, come per tanti altri biellesi e italiani in questa fase, non è semplice nemmeno trovarsi a oltre mille chilometri da casa in un momento del genere: «Quando siamo venuti a conoscenza di questa situazione – conclude Rosmo -, per me e gli altri colleghi italiani è stata dura: non potevamo fare assolutamente niente. Ti senti impotente, sapendo che da dove vieni sta succedendo un disastro e che le persone a cui vuoi bene possono essere colpite. Adesso un po’ ci ho fatto il callo a questo stato d’animo, anche perché ho visto il Paese muoversi bene e adottare precauzioni e misure di prevenzione valide, però continuo ad avere più paura per la mia famiglia a casa che per me».
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