Tra le righe
Le pieghe dell’anima
Tra le righe, la rubrica di Enrico Neiretti
Sono salito ad Oropa per vedere la personale di Daniele Basso “Le pieghe dell’anima”.
Sono salito due volte. La prima, di sfuggita, in un pomeriggio feriale dopo il lavoro. Il cielo era nuvoloso, denso di quelle nuvole che illudono che finalmente pioverà. Ma è bastato uno scroscio d’acqua per mostrare già un cielo luminoso, e poco dopo la pioggia ha smesso di cadere.
Salendo verso Oropa uno squarcio azzurro pallido nel cielo faceva filtrare un raggio di sole che illuminava i pendii del monte Cucco di una luce metallica, fredda, che faceva delle rocce e dell’erba secca un unico manto. Su, il Mucrone era avvolto a nuvole nere, ed il Santuario, quasi deserto, aveva un aspetto misterioso.
Ho parcheggiato l’auto e sono sceso incamminandomi verso il cancello dell’ingresso.
Poco più avanti, sulla destra, Boogyeman mi dava le spalle, con la sua schiena arcuata color ruggine. Ho camminato lentamente attorno alla sagoma aspettando che i pochi visitatori proseguissero oltre. Ho fissato per un po’ la superficie della statua, che sul lato anteriore, nella parte alta, è lucida, a specchio. Poi mi sono incamminato verso la scalinata che porta verso la basilica antica, e ho percorso il porticato fino alla seconda installazione: il falco Achill.
Intanto il cielo si era di nuovo coperto di una coltre densa di nuvole scure, di nuovo a promettere la pioggia. Ho guardato il rapace per un po’, poi ho realizzato che era tempo di tornare a casa.
Per il resto della serata ho pensato.
Conosco la paura, come tutti. Anzi, ho sempre creduto di essere particolarmente sensibile al sentimento della paura, come a tutti i sentimenti del resto. Spesso ho provato forte la paura. Tante volte la paura ha destabilizzato la mia quotidianità con la sua ombra capace di distorcere e deformare ogni cosa.
Ma ho sempre avuto la sensazione che il tempo avrebbe accomodato le cose, che il suo incedere avrebbe nascosto, mimetizzato, persino neutralizzato tutto ciò che di volta in volta era stato capace di innescare la paura. Che si possa chiamare fatalismo o che sia invece ignavia, in ogni caso affidare il mio cuore impaurito alle cure del tempo ha sempre funzionato.
Oggi non sono più sicuro che possa ancora funzionare. Oggi non so se il tempo, in questa fase dura e confusa, può ancora assolvere alla funzione di disinnescare la paura.
Vedo le nuvole fosche che adombrano il cielo e la mia fiducia nello spirito bonario del tempo vacilla.
Sono di nuovo salito su ad Oropa. Un sabato mattina luminoso, con una brezza fresca che spolverava ogni cosa. Ho camminato a lungo per i sentieri lì intorno. Ho guardato in faccia la bellezza della natura, invero un po’ spossata dalla siccità. Sono arrivato sino al poggio del Cucco, e, in uno strano gioco di prospettive, questa volta ho guardato giù: ho guardato la città che si allarga sulla pianura e tutto sembrava preciso, ordinato, imperturbabile. Da lì sembrava che nulla potesse scalfire quell’ordine stabile delle cose.
Mi ha rassicurato, quella vista.
Al ritorno mi sono fermato davanti alla basilica superiore. Lì Ikaros volge le sue ali verso il cielo. Quel cielo prima terso e ora percorso di nuovo da nuvole scure che si innalzavano sopra la cupola della basilica, sopra la cima del Mucrone.
Ho guardato quello spazio abbracciato dalle grandi ali lucide e mi sono fermato a pensare.
E ho capito che la chiave per superare la paura sta tutta lì, nel volo. Il tempo pare distratto, persino ingrato, e non promette più di neutralizzare le paure che si addensano sulle nostre vite. Ma c’è il volo, c’è l’azione, c’è il coraggio. E sì, c’è anche il rischio, il pericolo di assumere su di sé la responsabilità di combattere.
Forse è qui la vera possibilità di maturare, di uscire dal fatalismo attendista e di assumere la responsabilità della condotta del vivere.
Mica poco, eh.
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