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Punch alla frutta

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La tradizione africana lo chiama “l’albero dei saggi e dei sapienti”. E’ sotto al baobab che gli anziani del villaggio impartiscono lezioni, ascoltano le cause dei litigi, risolvono i problemi, celebrano le cerimonie agli antenati e ai viventi invisibili, coloro già passati sull’altra sponda della vita. Noi ci mettiamo “sotto al baobab” ogni mercoledi, con questa nuova rubrica, e come i saggi e i sapienti ascoltiamo le voci e i racconti che vengono dalle immensità africane, per ricordarci del presente in casa nostra. Sotto al baobab ci incontriamo e celebriamo le nostre storie.

Il baobab è quel gigantesco albero che troneggia nelle immensità dell’Africa. Per il Piccolo Principe, nell’opera di Antoine de Saint Exupery, il baobab “è una catastrofe… se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi lo fanno scoppiare”. Per questo si dava da fare ogni mattina per strappare i baobab. Ma noi sappiamo che l’Africa non è quel piccolo pianeta del Piccolo Principe: i suoi spazi sono immensi e il baobab è considerato “l’albero fratello”, il più rispettato, molto ospitale, accogliente, energico, bello, longevo oltre i trecento anni. La tradizione africana lo chiama “l’albero dei saggi e dei sapienti”. E’ sotto al baobab che gli anziani del villaggio impartiscono lezioni, ascoltano le cause dei litigi, risolvono i problemi, celebrano le cerimonie agli antenati e ai viventi invisibili, coloro già passati sull’altra sponda della vita.

Noi ci mettiamo “sotto al baobab” ogni mercoledi, con questa nuova rubrica, e come i saggi e i sapienti ascoltiamo le voci e i racconti che vengono dalle immensità africane, per ricordarci del presente in casa nostra. Sotto al baobab ci incontriamo e celebriamo le nostre storie.

Punch alla frutta

L’alcool fa strage: alle feste e sulle strade. Le cronache ne parlano assai. Forse meno di quei casi che restano confinati tra le mura di casa. Difficile far barriera. Ma il tentativo va fatto: e vincere, anche nelle situazioni più strambe.

Vissi otto mesi in un villaggio fatto di nulla al confine tra la Costa d’Avorio e la Liberia. Facendo la valigia, aprii il frigo dove c’era una bottiglia di aperitivo alcoolico, dai colori industriali. E lì la lasciai perchè quel villaggio rischiava di essere pericoloso. All’indomani del mio arrivo il Prefetto decretò la chiusura di tutto quanto si muoveva, dalle 22 alle 6, per garantire la sicurezza dei beni e delle persone. Non lo chiamò coprifuoco: ma lo era.

Cosa c’entra la mia bottiglia di punch da supermercato con la pericolosità di quel villaggio? C’entra, per la solitudine in cui ti getta e il nulla in cui ti avvolge più che per la delinquenza che il Prefetto voleva stoppare. Quel villaggio era il posto giusto per caderci dentro; dove potevi mettere in fila in una sola serata un numero considerevole di bottiglie, quelle si «pericolose», che andavano ad aggiungersi a quelle del week end passato, dei giorni normali e del week end successivo.

Ecco perchè ho lasciato nel frigo quella bottiglia-tentazione, capace di innescare meccanismi poi difficili da controllare; le fontane di alcool come risposta alle lunghe serate di solitudine, di silenzio assordante, di condizioni di vita difficili fatte di poca acqua, poca luce, poca comunicazione, poco cibo, e tanti affetti lontani, che rischiavano di essere sempre più lontani e appannati fino a scomparire.

Un colonnello delle Nazioni Unite, mi chiese se quel villaggio mi piacesse. Mi uscì un «no» secco, troppo secco anche per chi, come me, rifiuta i paragoni tra i Paesi dove ho vissuto e lavorato. Trovo che sia un esercizio inutile e sfalsato da quella soggettività che impera diversamente in ciascuno di noi. Siccome non è stato il medico a ordinarti di andare e di starci, non ti resta che trovare il punto di equilibrio tra i vantaggi (pochi) e gli svantaggi (tanti) che ti fa amare anche quello che gli altri non comprendono.

Preferisco lasciare spazio ai ricordi dal sapore diverso, quand’anche fosse amaro per le miserie umane che ho incontrato, contro cui ho lottato, che sovente mi hanno sopraffatto ma mai vinto. Proprio come quella bottiglia, che ho più volte guardato cercando una ragione per metterla in valigia, ma che è saggiamente rimasta nel frigo di casa.

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