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La libertà di dissentire
La settimana scorsa si sono prodotti due fenomeni che, casualmente incrociati, parlano di un certo tipo di biellesità ma, anche, di un certo tipo di sinistra. Il primo riguarda il mio corsivo sui #100giorni della Giunta Cavicchioli. In privato (e su questo aspetto tornerò) ho ricevuto pesantissimi attacchi personali, sfociati in un “scrivi robe da leghista”, come se parlare di tariffe delle mense scolastiche o di consumo di suolo fosse un argomento “da leghista”.
Il punto però, evidentemente, non è questo. A Biella vige una cultura “ottocentesca” che mischia il cattolicesimo giansenista (prega, lavora, taci) con il “liberalismo” massonico (lavora, accumula, taci).
Che, nella fantomatica “operosità” di chi non si perde in fronzoli (e cosa c’è di più effimero dello scrivere?), fa del silenzio (tutto il contrario di pubblicare su questo giornale) la sua regola aurea. Per questo, prima ancora del contenuto dello scritto, c’è la violazione della norma che imporrebbe il silenzio pubblico su quanto avviene tra le stanze del potere politico locale.
Perché? Perché, a sinistra, si unisce un’altra categoria che è quella del “togliattismo”, quella delle due verità: quella interna, dove – teoricamente – si parla in libertà, e quella pubblica, dove si risponde come un sol uomo. Un po’ quello che, nelle parole di Renzi, avrebbe dovuto avvenire – per l’ennesima fiducia – martedì scorso al Senato.
Puoi essere in dissenso ma, poi, devi votare – per disciplina – quello che decide la maggioranza, e non importa la Costituzione, la tua coscienza, le persone che rappresenti: c’è la disciplina di partito e a quella devi attenerti. Paradossalmente, proprio coloro che non provengono dalla storia della sinistra comunista italiana invocano la disciplina di partito, una sorta di stalinismo, ma senza comunismo. Un autoritarismo dall’alto senza nemmeno la parvenza di una qualche copertura ideologica.
Purtroppo, il “re è nudo” a Biella come a Roma. Con l’aggravante che qui non c’è il circo mediatico a totale servizio del “re” e, quindi, essendo una terra di poche migliaia di anime, tutto diventa più fluido, incontrollato e pubblico. Un commento sui social network o un editoriale sulla stampa locale possono far crollare un castello di carta che non regge alla prova dei fatti. Perché i “fatti hanno la testa dura”. Invece il flop – ampiamente previsto, anche da chi scrive – dell’assemblea sul progetto milionario di Piazza Duomo non diviene occasione per una seria autocritica e per un – seppur tardivo – ripensamento, ma occasione, per alcuni, di chiudersi ancora di più a riccio e criticare chi quel progetto lo ha sempre contestato. Non ci sono i fatti, c’è solo il proprio punto di vista.
Magari sul breve periodo hanno ragione loro, conta di più il metodo piuttosto che il merito delle questioni. Forse, lo scagliarsi contro il “teatrino” che – quasi in contemporanea – Renzi e Cavicchioli hanno lamentato nei confronti dell’opposizione ha molto più “mercato” che le critiche e il legittimo (e sacrosanto) diritto di dissentire di chi non la pensa uguale. Però, siccome provengo da una storia di sinistra dove la “disciplina” e la “fedeltà” facevano venire l’orticaria, preferisco pensarla come un’eretica del secolo scorso (uccisa, guarda caso, dai suoi stessi ex compagni), Rosa Luxemburg: “la libertà è sempre la libertà di dissentire”. Con buona pace di re e cortigiani.
Roberto Pietrobon
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