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C’era una volta il lavoro, poi si è ammalato…

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C’era una volta il lavoro. Era dappertutto: in pianura, lungo i fiumi, sulle colline, nei paesi, nei quartieri industriali e perfino nelle frazioni più sperdute dell’alto Biellese. Il lavoro, a quell’epoca, aveva nomi strani e comunissimi: stracciosa, ring, ritorcitura, roccatura, gomitolatura, tessitura, telaio, garzatura, rammendatura, tintoria. Era praticato da migliaia di “operai”, razza in estinzione, che si muovevano con biciclette, motorini, vespe, cinquecento, centoventisei, millecento, e perfino NSU prince dai colori improponibili.

C’era una volta il lavoro. Era dappertutto: in pianura, lungo i fiumi, sulle colline, nei paesi, nei quartieri industriali e perfino nelle frazioni più sperdute dell’alto Biellese.

Il lavoro, a quell’epoca, aveva nomi strani e comunissimi: stracciosa, ring, ritorcitura, roccatura, gomitolatura, tessitura, telaio, garzatura, rammendatura, tintoria. Era praticato da migliaia di “operai”, razza in estinzione, che si muovevano con biciclette, motorini, vespe, cinquecento, centoventisei, millecento, e perfino NSU prince dai colori improponibili.

Gli operai vestivano giacconi, sciarpe, berretti e guanti coloratissimi, spesso fatti a mano. Arrivavano a frotte, in mezz’ora occupavano parcheggi e grandi cortili interni di luoghi anch’essi spariti, chiamati fabbriche. Le giornate a quel tempo erano scandite dal suono della sirena delle sei del mattino, delle due del pomeriggio, delle dieci di sera.

Attraversando paesi e quartieri, sentivi i rumori cadenzati dei ring, quello assordante dei telai, guardavi il fumo delle ciminiere e prestavi molta attenzione al passaggio di centinaia di camions che trasportavano rocche, tessuti, gomitoli di lana. Si diffuse cosi tanto “il lavoro” che  si cercavano altri operai di altre regioni; ai pali della luce si attaccavano cartelli con la scritta “cercasi operai” ed aumentarono a dismisura capannoni e parcheggi.

Poi d’improvviso cominciarono le prime epidemie. Il lavoro si ammalò. Sembrava che si potesse riprendere in fretta, sembravano malesseri di stagione, febbri passeggere, invece il male si manifestò in tutta la sua virulenza. Chiusero fabbriche, diminuirono macchine e motorini, sparirono i giacconi e i berretti colorati e nelle strade non passarono più camions. Sparirono i cartelli dai pali della luce, molti operai partirono per chissà dove, le ciminiere vennero spente, i telai venduti al Marocco e alla Tunisia, i ring ai Cinesi, e le roccature  agli Indiani.

Se vai in quei quartieri e in quei paesi dov’era il lavoro e ti fermi a chiedere a qualcuno notizie, ti rispondono che non lo vedono da anni. Il lavoro vero se n’è andato. C’e’ un po’ di lavoro nero, n’anticchia di lavoro interinale, na grampà di lavoro a progetto, e boccheggia perfino il lavoro a tempo determinato.

Pagliativi, brutte imitazioni, la pestilenza s’è portata via tutto. Buon primo maggio!

beppe pellitteri

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