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A noi sopravvissuti non importa niente

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Io ci sono dentro, da otto anni, ogni giorno, ogni minuto.  E quando l’ennesima ragazza si uccide, vedo ripartire la canea dei buoni consigli, delle censure sul modo di fare informazione.  Così il problema cessa di essere la morte, ma il modo di raccontarla.

Io ci sono dentro, da otto anni, ogni giorno, ogni minuto.  E quando l’ennesima ragazza si uccide, vedo ripartire la canea dei buoni consigli, delle censure sul modo di fare informazione.  Così il problema cessa di essere la morte, ma il modo di raccontarla: la privacy, la Carta di Treviso, le Linee Guida dell’OMS e altre beffarde bubbole che a noi, i sopravvissuti, non importano nulla.  Siamo diventati una legione, e rappresentiamo un problema per noi stessi e per gli altri.

Noi, i sopravvissuti, come continuiamo a vivere dopo “quella” morte dei nostri figli, mariti, mogli, padri, parenti, amici?   Come naufraghi appesi alle responsabilità verso gli altri, altri mariti mogli figli sopravvissuti come noi e a loro volta a noi aggrappati.   In un mare che ogni giorno ci restituisce corpi inerti e straziati.   Zavorrati da sensi di colpa, rimpianti, disperazione, che ci trascinano verso il fondo.  Afferrati al ricordo dei nostri morti, che difendiamo tenacemente dagli affettuosi tentativi di farci “elaborare il lutto” compiuti da amici che ci prestano il loro dio come analgesico o ci strappano dall’isolamento per regalarci scampoli di una “normalità” che non c’è più e non potrà mai più esserci, da terapeuti della mente e dell’anima che accentuano la pena e il tormento con la promessa di un’estasi rassegnata.  Molti di noi, i sopravvissuti, finiscono schiantati da disperazione e sensi di colpa e diventano preda di una furia autodistruttiva che si scarica sugli altri sopravvissuti: le famiglie si dissolvono.  Non è vero che il dolore unisce.  Quando è troppo, vederlo riflesso sul volto della donna o dell’uomo con cui hai diviso la vita diventa insopportabile. Anche noi, i sopravvissuti, siamo depressi e sommiamo con immensa fatica i giorni nel pianto quotidiano, che ci strazia e ci solleva, per un dolore irredimibile.   Qualcuno si annulla nel lavoro, qualcun altro in forme iperattivistiche di volontariato, altri in una deriva del corpo e dell’anima.  Soli, anche orgogliosamente, nella convinzione che nessuno abbia la forza, la mente, il cuore, per trarci dalla condizione in cui siamo precipitati.   Noi, i sopravvissuti, piangiamo da soli ed escludiamo chiunque da questo che è l’unico ed ultimo rapporto che ci rimane con i nostri morti.  Non è vero che il tempo lenisce le ferite.  Il tempo ci è amico se non ci fa dimenticare, se ogni giorno ci regala un ricordo nuovo, una nuova ragione per soffrire ancora, e ancora…

Loro, i nostri morti, sono il masso del nostro avello, tomba e inferno quotidiano da cui non possiamo, e forse non vogliamo, uscire.   Noi, i sopravvissuti, siamo il problema, e dei vostri consigli tardivi, del vostro sincero e generoso cordoglio, non sappiamo cosa farcene. 

giulianoramella@tiscali.it

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