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Cronaca

“Avevo un tumore e non mi hanno curato”. E’ morto

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“Mi chiamo Ioan Gal, sono in fin di vita e vorrei raccontare la mia storia”. Più che una storia sembra un incubo quello vissuto dall’uomo di 51 anni che ci chiede di incontrarlo mentre si trova ricoverato all’Hospice “L’Orsa Maggiore” di Biella. Vuole raccontare la sua versione dei fatti.

“Mi chiamo Ioan Gal, sono in fin di vita e vorrei raccontare la mia storia”. Più che una storia sembra un incubo quello vissuto dall’uomo di 51 anni che ci chiede di incontrarlo mentre si trova ricoverato all’Hospice “L’Orsa Maggiore” di Biella. Vuole raccontare la sua versione dei fatti.

Originario di Timisoara, in Romania, negli ultimi anni ha vissuto a Torino. Non conosce Biella, non sa che la struttura nella quale si trova è quella riservata ai malati terminali. Tuttavia si rende conto che potrebbe restargli poco da vivere. Un cancro lo ha letteralmente consumato. In pochi mesi, caratterizzati da sofferenze e dolori atroci, Ioan ha perso circa venti chili. La storia che vuole raccontare, però, non è quella di un semplice paziente, ma quella di un uomo che si ammala mentre è recluso in carcere.

Fino a poco tempo fa, infatti, Ioan Gal era detenuto nella casa circondariale di via dei Tigli, dove doveva scontare un anno e quattro mesi di reclusione per tentato furto. Pena alla quale si sono poi aggiunti altri cinque mesi per una seconda condanna. Proprio qui, a suo dire, è iniziato il calvario, un inferno ben peggiore di quello normalmente vissuto da chi viene privato della libertà, un inferno finito a giugno di quest’anno, quando è stato scarcerato.

Quando si è aperto il cancello, Ioan non è stato in grado di tornare alla propria vita. Non si reggeva in piedi, stava male. Tanto da rendere necessario l’intervento di un’ambulanza del 118, chiamata dagli stessi agenti della polizia penitenziaria, e il trasporto all’ospedale. Durante il ricovero al “Degli Infermi”, durato alcune settimane, è stato sottoposto a diversi accertamenti che hanno portato a scoprire quale fosse il male che lo attanagliava e gli rendeva l’esistenza impossibile da mesi. Gli è stata diagnosticata la sindrome di Ciuffini-Pancoast, tecnicamente una “lesione solida da carcinoma adeno-squamoso polmonare ed infiltrante piani muscolari-ossee vascolari, della parete toracica, con paralisi flaccida e algia severa alla spalla e al braccio destri”.

«Alla fine del 2014 sono stato trasferito dal carcere delle Vallette di Torino a quello di Biella – racconta quando lo incontriamo, avvertiti dall’amico che si sta prendendo cura di lui –. All’inizio le cose andavano bene. Ero sano, pieno di vita, avevo anche iniziato a svolgere qualche lavoro all’interno della struttura». La situazione cambia all’improvviso, drasticamente, nel mese di giugno del 2015. «Ho accusato un forte mal di testa per un paio di giorni – spiega – poi in infermeria mi hanno dato qualche pastiglia e mi è passato. Nel giro di poco, però, il dolore è sceso verso la spalla ed è peggiorato. Due o tre giorni dopo, il braccio destro, dal gomito alla mano, mi faceva male da morire».

Le condizioni di Ioan precipitano rapidamente: «Stavo malissimo giorno e notte – continua a raccontare -, a settembre praticamente non riuscivo più a muovere il braccio, faticavo a camminare, non dormivo, non ero più in grado di prendermi cura di me. L’unico sollievo erano gli antidolorifici che però mi davano quando volevano loro».
Passano i mesi e Ioan non migliora. Un gruppetto di detenuti, vedendo la sua sofferenza, si organizza per dargli una mano. Uno lo aiuta per il cibo, un altro gli lava i vestiti, un altro ancora lo accompagna e letteralmente lo sostiene quando deve spostarsi. Negli ultimi tempi l’amministrazione penitenziaria, viste le sue condizioni, decide pure di affiancargli un “piantone”, un altro recluso pagato per assisterlo.

«Lo stato di salute di Ioan era grave, chiunque era in grado di accorgersene – sostiene Eugenio Maiolo, ex detenuto che una volta uscito dal carcere ha continuato ad aiutare il 51enne -. Passava le notti a urlare e a lamentarsi per il dolore. Qualcuno doveva fare qualcosa e invece non è stato fatto nulla. Ricordo che una volta l’ho portato a fare una doccia. Era febbraio. A un certo punto ho visto un lago di sangue. Gli era uscito dal retto. Ho chiesto che gli venisse fatta una gastroscopia e mi è stato risposto di farmi gli affari miei».
In realtà esami e accertamenti ci sono stati, anche con controlli specialistici all’ospedale, ma non si sono rivelati affatto risolutivi. Altri erano in programma a pochi giorni dalla sua uscita dal carcere: «Ricordo un paio di visite effettuate fuori dalla struttura – chiarisce Gal -, una dall’ortopedico e un’altra per un’elettromiografia. Poi mi facevano i raggi. Ma avevo bisogno di controlli ulteriori, di un ricovero, invece niente. Per mesi nessuno ha voluto capire davvero cosa avessi fino a quando sono uscito e sono stato ricoverato. Dove sono adesso sto bene e si prendono cura di me. Nel frattempo ho vissuto l’inferno. Quando sono entrato in carcere pesavo circa 65 chili, quando mi hanno liberato ero sceso a 40».

Eppure Ioan sostiene di averci provato in tutti i modi a ottenere maggiori “attenzioni”, si sentiva abbandonato a se stesso: «Ho anche presentato una denuncia ad agosto del 2015. Non pretendevo di guarire, ma almeno di essere curato come si deve. Chiedevo che venisse fatto qualcosa per alleviare l’insopportabile dolore. Ero un detenuto, ma pensavo comunque di avere il diritto di essere curato. Alla fine non sapevo nemmeno più dove fossi o con chi stessi parlando. Perché in tutto questo tempo, viste le mie condizioni, non è stato possibile scoprire che avevo un tumore?».

La rabbia di Ioan è rivolta solo ai responsabili dell’area sanitaria, indipendente dall’amministrazione della casa circondariale. La nota positiva, infatti, volendone trovare una, è rappresentata dal comportamento della polizia penitenziaria: «Gli agenti e gli assistenti – conferma Ioan Gal –, così come gli infermieri, hanno fatto tutto il possibile, tutto ciò che era in loro potere. Cercavano di aiutarmi».

A Ioan sono rimaste solo una grande amarezza e la sensazione di aver subito un grave torto: «Non dico che se fossi stato ricoverato prima sarei guarito – aggiunge -, magari mi troverei nella stessa identica situazione. Però mi sarebbero stati evitati mesi di incredibili sofferenze. Voglio giustizia».
Oltre alla giustizia, Ioan chiedeva che la sua storia diventasse pubblica, anche per evitare che altri potessero vivere la medesima esperienza. Chiedeva, al passato, perché nei primi giorni di questo mese si è improvvisamente aggravato e lunedì 8 agosto ha smesso di soffrire, due settimane dopo averci raccontato la sua versione dei fatti. Sperava di riuscire a leggerla sul giornale, ma non ha fatto in tempo.

 

Matteo Floris
Andrea Marzocchi

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