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Tutti insieme (poco) appassionatamente

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Fonzarelli di provincia

Forse non ce ne rendiamo neanche conto, ma in modalità più o meno retoricamente sostenibili ci troviamo spesso a parlare, e a volte appunto anche a sproloquiare, del nostro essere comunità. Dell’esserlo, del non esserlo, del come esserlo e come non esserlo e con chi esserlo. In un risotto di desideri e ragionamenti, a volte d’inconfessabile individualismo, consapevoli ma anche no, come capita alle manifestazioni istintuali.

Dalla frazione di paese all’Unione Europea, dall’istituzione locale alla Nato. Così per dire, ma sempre guardandoli da fuori, come se non ci fossimo dentro pure noi, in parte pur infinitesimale, e come se anche quello non fosse “fare comunità”. Un po’ come evadere le tasse e comunque pretendere una sanità d’eccellenza e strade senza voragini.

L’essere e fare comunità, per l’essere umano, ha più di mille ragioni, mentre ne ha certo di meno il disfare comunità. I motivi di questo fare o disfare, che a volte non è detto che coincidano con le ragioni, possono essere fisici e mentali: confini geografici, confini politici, razzismi, affinità culturali o religiose. Anche le appartenenze e le paure fanno parte del gioco, così come gli opportunismi e gli interessi condivisi. Insomma, la faccenda è di per sé e da sempre complessa: comprende la razionalità e il suo contrario.

Resta il fatto che ogni discorso pubblico parla di comunità e, con tutta probabilità, manchiamo della sufficiente consapevolezza: il bene di tutti è anche il mio, il mio bene non è detto che sia quello di tutti. Di solito, a questo, ci aggiungiamo un “ma chi se ne frega”, come fossimo a una qualsiasi assemblea di condominio di fantozziana memoria, a discutere della pulizia delle scale (peraltro metafora perfetta della vita comunitaria).

Il flusso di coscienza di questa settimana deriva dalla lettura di un titolo intravisto su una testata locale: “Iris vuole unirsi al Cissabo ma la risposta è negativa”. I due consorzi sono comunità (somme di comuni divise territorialmente) che si occupano dei servizi socio-assistenziali nella nostra provincia. Vero che un titolo del genere lascia pensare all’esistenza di buoni e cattivi, di un mondo locale e localista in cui il buono desidera l’unità e il cattivo la rifiuta.

La realtà è, come sempre, più complessa della chiacchiera da bar e riguarda problemi di eventuale accorpamento di dipendenti e funzioni, e comunque della definizione di ambiti territoriali e relativi enti gestori. Non ci sono buoni o cattivi, ma modalità operative in via di definizione. Il merito della questione non è il tema che ci riguarda. Solo sollecita una buona dose di riflessioni sul come siamo e come potremmo essere, come comunità.

Una ventina d’anni fa – mamma come passa il tempo! – tra i politici locali erano di moda espressioni come “è necessario fare rete”, venduta a mo’ di panacea d’ogni malessere pubblico e privato del territorio (collaborazioni ed economie di scala avrebbero comunque, allora come ora, davvero un senso). Era moda diffusa a ogni livello, ma non è che nel tempo se ne sia persa l’abitudine all’uso: resta vigente con sfumature tra le più diverse. Morale, che di quelle parole e di quel “fare rete” non è rimasto nulla di significativo e l’esasperato individualismo che caratterizza questo territorio, caratteristica che a quanto pare ci sta particolarmente a cuore, è pressoché rimasto la cifra che ci distingue. Magari è un’impressione, il solito luogo comune che ci dovrebbe indignare o far sorridere, che tanto il risultato non cambia. O magari no.

Il tema socio-assistenziale mi ha fatto riflettere, per associazione d’idee, su ben altre associazioni: quelle di volontariato. Capita spesso di vedere citato qualche dato che per la sua enormità, a uno sguardo distratto, potrebbe sembrare qualcosa di cui andare fieri. Non credo che le cose stiano così. Credo anzi che ci sia un eccesso di frammentazione e sovrapposizione d’intenti per le ragioni già descritte prima: proprio non siamo capaci di “fare rete”.

Il Centro territoriale per il volontariato cita, nella sua presentazione, oltre 600 enti del Terzo settore (Ets) tra Biella e Vercelli. In realtà, grazie alla “nuova” legge sul Terzo settore introdotta di recente, oltre a quelle di volontariato sono comprese altre organizzazioni dell’impresa sociale (iscritte nel Registro unico nazionale del Terzo settore: il Runts). In ogni caso, stando agli ultimi dati riportati nel registro regionale delle Organizzazioni di volontariato (Odv) a fine 2021, il Biellese ne riportava 260. Il dato più alto in regione rispetto alla popolazione.

Quindi no, non era un’impressione. Un discorso simile lo si può ribaltare sulla fusione di comuni, alla quale si continuano a registrare campanilistiche resistenze. Un esempio tra gli altri: qualche anno fa, in Valle Cervo, si sono fusi tre comuni in uno da 500 abitanti. Si può fare meglio, perché non sempre “piccolo è bello”. Anzi, quasi mai. Anche se a noi piace tanto così.

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