Attualità
Questo non è il futuro che avevamo sognato
Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio
Correvano gli anni ’60, ah se correvano. Anzi, volavano sulle ali di un miracolo economico italiano di cui noi, italiani, non ci avevamo ancora capito nulla, colti come siamo stati dalla frenesia compulsiva di quel primo approccio al consumismo.
Eravamo divisi tra l’estremo realismo cinico della nascente commedia italiana e la visione, altrettanto compulsiva, dello Star Trek televisivo. Perché anche la televisione era, tutto sommato, ancora una novità, e la serie ci raccontava di un futuro sì immaginato, ma che credevamo fosse a quel punto inevitabile nella sua possibilità di divenire. Avevamo negli occhi astronavi che solcavano lo spazio e tutine attillate in bianco e nero.
A scuola ci facevano studiare il triangolo industriale disegnato unendo i puntini tra Milano, Torino e Genova. Con spregio asimmetrico del resto d’Italia, che si disegnava come gli veniva meglio o come poteva. E spesso non poteva proprio, segnando così il periodo della migrazione interna, da Sud a Nord e da Est a Ovest, al ritmo di una milionata di persone l’anno a caccia dell’industrializzazione urbana e un po’ selvaggia descritta in quel triangolo che offriva lavoro e salario in cambio di lotte sindacali e inquinamento diffuso.
In quel decennio si ponevano le basi per la sanità pubblica, che nel 1948 aveva avuto il suo riconoscimento costituzionale, per essere poi istituita formalmente alla fine dei Settanta. Non era tutto oro ciò che luccicava, ma ci brillavano gli occhi a guardare verso il futuro. Ora che quel futuro siamo noi, ci viene un po’ da piangere e gli occhi ci tornano a brillare soltanto a guardarci indietro. Viviamo un presente in cui Milano fa notizia per le imprese delle baby gang, Torino si balocca con il trash televisivo formato canzonetta e Genova la si commemora per i ponti crollati: al triangolo è caduta ogni ipotenusa di futuro industriale.
Le auto ancora non volano e ce le ritroviamo tutte parcheggiate in divieto di sosta, meglio se nel centro storico e, da quel punto di vista, abbiamo un Piazzo all’avanguardia. Se andassimo in giro con le tutine di Star Treck colorate, invece che con le infradito, ci faremmo un favore reciproco alla vista. Insomma, ci siamo immaginati un futuro sbagliato. Quello che ci tocca è un presente regressivo, in cui l’impressione sul nostro incedere è quella di fare un passo avanti e due indietro. Con la conseguente perdita di conquiste sociali e una surreale perdita di senso dell’ordinaria amministrazione.
Qui, i treni non sono mai arrivati in orario nemmeno quando c’era lui, ma l’approssimazione del servizio attuale non trova riscontro nel passato recente. Complice un’ambigua privatizzazione dell’azienda, che privilegia i servizi accessori penalizzando uno dei servizi essenziali più necessari. Ha probabilmente ragione quel prete che, dalle colonne del periodico locale della Curia, si chiede perché la Chiesa non si occupa del problema dei treni: per avere affidabilità e garanzia del servizio tra Biella e Torino ci vuole un miracolo. Una mia recente esperienza sulla tratta mi è parsa il remake di una puntata de “Ai confini della realtà”, altra serie tv di culto degli anni ’60, che si nutriva degli stessi vuoti temporali delle attuali Ferrovie italiane.
I servizi sanitari del terzo millennio sembrano invece entrati nel paradosso che vede diminuirne la qualità all’aumentare degli strumenti tecnologici disponibili. Averci a che fare telefonicamente ci lascia spesso il dubbio di essere protagonisti, come negli anni ’60, di una puntata di “Specchio segreto”, la prima candid camera della tv italiana. Prendere la linea è già un successo, e l’interlocuzione con operatori e centralini elettronici assume un carattere surreale.
Ne ho avuto prova qualche giorno fa, in seguito all’invito, via lettera, della Regione Piemonte per un esame di screening. La lettera conteneva un numero telefonico al quale confermare un appuntamento già fissato. Al momento della conferma scopro che il numero è cambiato e che quell’appuntamento in realtà non esiste e debbo fissarne un altro, fra tre mesi. Dopo tre telefonate gli operatori mi danno ognuno una versione diversa lasciandomi, frustrato e perplesso, con l’impressione che proprio non sapessero di cosa stavano parlando.
La competenza sanitaria alle regioni ci mette in balia dell’una o dell’altra parte politica, di solito intenta a disfare ciò che di buono è stato fatto prima. La morale è che per fare il miracolo italiano di cui parlavo sopra adesso basterebbe una modesta normalità, e il futuro che avevamo sognato è solo questo distopico presente che ci è toccato in sorte.
Lele Ghisio
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