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“Mio padre ed io siamo stati dimenticati da tutti”

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«Domenica avrebbe compiuto 80 anni. Per sei anni ho cercato di andare avanti, ma non riesco a darmi pace. E temo che non ci riuscirò fino a quando non mi avranno dato risposte sulla sua morte».

«Domenica avrebbe compiuto 80 anni. Per sei anni ho cercato di andare avanti, ma non riesco a darmi pace. E temo che non ci riuscirò fino a quando non mi avranno dato risposte sulla sua morte».

A parlare e a raccontare la sua storia è Roberto Golisano, figlio del dottor Francesco Golisano, coordinatore dei giudici di pace di Biella, morto nel dicembre del 2009 all’ospedale Mauriziano di Torino. Ricoverato in seguito all’infarto che lo aveva colpito mentre si trovava alla stazione Porta Susa, si spense dopo aver lottato per alcune settimane. Stimato servitore della pubblica amministrazione per 40 anni, negli ultimi mesi della sua vita aveva dovuto fare i conti con i sospetti di presunte irregolarità nella gestione dell’ufficio. «Presunte irregolarità che riguardavano gestioni precedenti (Golisano aveva assunto l’incarico da poco più di un anno, ndr) – sottolinea il figlio – e per le quali è stato chiesto conto a lui, che non c’entrava niente. Uno stress che ha somatizzato tanto da star male fisicamente. Si è lasciato consumare dai problemi interni all’ufficio, fino a rimetterci la vita».

Secondo Roberto Golisano, infatti, sarebbero state proprio le preoccupazioni di un uomo ligio al dovere da tutta la vita a provocare l’infarto fatale, che lo colpì il pomeriggio del 23 novembre 2009, proprio dopo essere stato ascoltato in Corte d’Appello, a Torino.
A distanza di tutti questi anni il figlio è ancora tormentato. Le risposte che chiedeva dopo la morte del padre non sono mai arrivate.
«Vorrei scuotere le coscienze – afferma – di chi avrebbe potuto fare qualcosa, aiutarmi a fare luce su ciò che era successo. Invece sono stato abbandonato, come prima avevano abbandonato mio padre, un dipendente pubblico impeccabile che ha sempre servito con onestà e dedizione il proprio Paese. Il ringraziamento è stato portarlo alla morte per stress, per colpe che non erano sue. Dopo la sua scomparsa non ho più saputo nulla, nessuno si è fatto avanti per fare chiarezza e stabilire eventuali responsabilità. Ipocrisia e omertà hanno vinto su tutto».

Un altro aspetto di quella tragica vicenda continua a tormentare Roberto Golisano: «Non sono mai state accertate le responsabilità nemmeno su quanto successo in stazione – spiega -. Porta Susa era aperta da poco, aveva solo due ingressi e… nessun defibrillatore. Una situazione che ha provocato il ritardo nei soccorsi, minuti fondamentali che forse avrebbero potuto salvargli la vita. Forse una struttura del genere, senza un defibrillatore nel 2009, non doveva nemmeno essere aperta al pubblico. Ma anche su questo non ho mai ottenuto risposte. Com’è possibile che nessuno abbia mai indagato?».

All’epoca dei fatti Roberto Golisano aveva 28 anni e dopo la morte del padre è rimasto solo. «Quando sono rimasto orfano – racconta – ho cercato di arrangiarmi come potevo. Non è stato facile, lui mi faceva da padre, da madre e da nonno. Mancato lui, mi è mancato tutto, affettivamente ed economicamente parlando. L’unico punto di riferimento è rimasta mia sorella».
Per sei anni ha cercato di lasciarsi tutto alle spalle, ma ancora non oggi ci riesce: «Ho passato sei anni a piangere e a sognarlo ogni notte – ribadisce -, arrangiandomi come potevo e facendo mille cose. Sono stato zitto e ho tentato di andare avanti. Non ci sono riuscito. Oggi sono disoccupato e invalido. E la mia testa è ancora lì. Alla vigilia del suo compleanno, voglio rinfrescare la memoria a chi lo ha dimenticato. Nessuno me lo restituirà, ma voglio giustizia in qualche modo, voglio che venga riconosciuto quanto successo, con delle ammissioni o con un risarcimento. Basta con il silenzio, voglio risposte. Per mio padre, ma soprattutto per un uomo che credeva nello Stato come pochi. L’unica colpa che gli faccio è quella di non aver lasciato quando era ancora in tempo. Non lo ha fatto per senso del dovere, quel senso del dovere che lo ha ucciso, in una stazione che forse non aveva nemmeno i requisiti per essere aperta».

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