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L’autarchia che non esiste

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Dopo le discese ardite nell’incognita di una pandemia che ha travolto noi e stravolto il nostro quotidiano, ci toccheranno pure le risalite verso la ricostruzione di una normalità che si rivela anch’essa come un’incognita. Non sarà un’impresa facile.

E’ un’esperienza che al mondo nessuno ha vissuto mai. Nada di case history alle quali ispirarsi, nessuno che possa vantare a curriculum questa expertise.

C’è dell’ironia, in questo meticciare il linguaggio: l’anglofilia che ci è cara non basterà a salvarci e a mettere in salvo ciò che resta di un modello che davamo ormai per scontato. Però nemmeno l’aria di autarchia che soffia tra le parole di alcuni, che prima invocavano l’apertura al mondo del nostro piccolo territorio e ora poemizzano una sorta di lockdown economico vaticinando turismi e consumi a chilometro zero. C’è da riparametrare tutto e ovunque; ci sarebbe anche da ripensare al modello che finora abbiamo praticato, ma temo che faremo finta di non averne il tempo.

C’è un po’ di vero in tutta la retorica che si è sprecata da balconi e giornali su quanto questa sciagura sociale abbia contribuito a rafforzare i legami di famiglia e comunità, ma c’è anche molto – appunto – di retorico. In realtà, il culo ci brucia forte e ci va d’immaginarci migliori anche quando probabilmente non lo saremo. Ma quel bruciore c’induce, a parole e flash mob, ad aggrapparci a un’appartenenza. Male non ci fa di sicuro, ma vediamo quanto dura prima che riemerga l’atavico individualismo che ci ha storicamente caratterizzato.

Mi sa che proprio in quei “Forza Biella”, dispensati a pieni tipi sia cartacei che virtuali poco importa, stia nascosta l’insidia. Pensarci ora in grado di sbrigarcela da soli per pedalare fuori da una crisi economica mai vista, per proporzioni e modalità, è cosa un po’ da pazzi. Se c’è qualcosa che questa assurda e colpevolmente imprevista viralità ci ha insegnato è che da tempo ci siamo ridotti a ingranaggio del meccanismo globale. E non è una questione così filosofica come può sembrare, perché posso continuare a comprare il pane nel negozietto sotto casa, ma il denaro che estraggo dal portafogli ha una provenienza contorta, resa complessa da un’indissolubile filiera d’ampio spettro: lo stesso indispensabile vaccino, per esempio, verrà da un altrove.

Riprendere le attività economiche, e quindi sociali, ma qui il discorso si fa addirittura più complesso anche se ben potrebbe integrare questo, implica il fatto che va riattivata nel più breve tempo possibile ogni relazione – tecnica, logistica, commerciale – con il mondo intero. Altro che filiera corta e turismo sulla collina dietro casa. Il comparto tessile ha necessità di sbloccare ed evadere ordini verso l’estero, per riprendersi a modo. Quello turistico dovrà aumentare esponenzialmente la propria capacità attrattiva, reinventando modalità e offerta. Il sistema dei trasporti si rivelerà fondamentale per ricollegarci alla ripresa: sia quello delle merci che quello delle persone. Che impatto subirà, a questo proposito, il trasporto pubblico nel suo rapportarsi al distanziamento sociale? Come ne sopravvivrà Atap, l’attore locale di proprietà del territorio, col suo parco mezzi e il suo personale? Aumenterà il traffico auto pendolare e il relativo inquinamento?

Per questo risulta necessario restare connessi, non solo a internet ma al mondo intero. Per imparare, condividere e rimettere insieme i pezzi. Ci sarà da lottare perché il mondo non ci lasci indietro, abbandonando la presunzione di potercela fare da soli. Ci sarà magari, perché no, da fare un bel ragionamento sul manifatturiero e sulla sua delocalizzazione: non è un caso che tutte le mascherine siano prodotte in Oriente, e proprio queste saranno un genere di prima necessità per lungo tempo.

Ci sarà da reinventare un vivere sociale alla luce di diverse abitudini e modalità. Sempre che, da buoni biellesi, in questo isolamento e distanziamento sociale non ci troviamo a nostro agio, felici e contenti di non avere troppo a che fare con il prossimo.
Lele Ghisio

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