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La sostenibile leggerezza della moda

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Per Coco Chanel la moda è fatta per diventare fuori moda, ma lo stile non tramonta mai. Nella Milano Fashion Week, le sfilate di Ermenegildo Zegna hanno dettato la tendenza delle prossime stagioni: i capi presentati sono nati reinventando pezzi di precedenti collezioni, provenienti da stock invenduti, sancendo il binomio tra lusso e sostenibilità, che nasce dalla consapevolezza che le risorse non sono illimitate e che il principio del riutilizzo non stride con la promozione dell’eleganza. Ogni anno in tutto il mondo vengono acquistati 80 miliardi di capi d’abbigliamento; l’obiettivo dei produttori di incentivare le vendite è facilmente raggiunto da collezioni continuamente rinnovate, da tagli accattivanti e da tessuti scadenti, che, associati a prezzi convenienti, favoriscono il continuo ricambio di merce, con un risultato tanto scontato quanto allarmante: una produzione spropositata di rifiuti.

Il mercato veloce e i prezzi stracciati si basano su produzioni in cui i lavoratori vivono in condizioni disumane e degradanti. Quando compriamo una maglietta prodotta in Asia, si stima che solo il 3% è destinato alla paga della manodopera. Secondo la rivista Forbes, tra i primi 50 miliardari più ricchi del mondo, 11 sono attivi nel mondo della moda, settore che dà lavoro a quasi 20 milioni di persone: tre quarti sono concentrate nel sud est asiatico e la maggior parte di loro non riceve uno stipendio adeguato e dignitoso.
Il messaggio trapelato dalle passerelle è così importante che va oltre il taglio di un cappotto: è un segnale più ampio di come si deve riconvertire il nostro stile di vita, preoccupandosi di quel che si lascia dietro quando si produce qualcosa di nuovo.

Solo dedicando la stessa attenzione anche alla tutela dei lavoratori tessili, a prescindere dalla loro zona di origine, la moda diventerebbe però davvero sostenibile e giusta.

 

Vittorio Barazzotto

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