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Attualità

Addio a Claudio Bracco, l’uomo dalle mille sfaccettature

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Tatuaggi, piercing e anfibi, ma non solo. Era variegato il popolo silenzioso che lunedì pomeriggio ha riempito piazza XXV Aprile e la chiesa di Chiavazza per dire addio a Claudio Bracco, improvvisamente scomparso nel fine settimana a soli 40 anni.
Persone diversissime tra loro, unite dall’affetto per lui. Perché Claudio era così, o lo amavi o lo odiavi. Indipendentemente dal fatto che tu fossi un alternativo o un avvocato in giacca e cravatta. Perché per chi non lo conosceva Bracco era semplicemente l’uomo tatuato, il ragazzo col volto dipinto, ma per gli altri, invece, il “Clod” era tante anime in una persona sola. Un uomo dalle mille sfaccettature, con pregi e altrettanto innegabili zone d’ombra. Eccessi e debolezze. Cuore d’oro e lato oscuro. L’ex celebre buttafuori (e barista) della Bohéme, ma anche l’uomo fragile; un giovanissimo e promettente portiere biondo della Chiavazzese, nei ricordi di chi lo ha visto crescere nel quartiere, un grande appassionato di arti marziali e cavalli, in quelli di chi lo ha frequentato da adulto. Ma anche un pittore, un artista, un amante delle sfide estreme, un figlio amorevole, un padre.
Un uomo spesso contraddittorio. Fin dalle apparenze: il suo aspetto insolito, che poteva incutere timore, si contrapponeva a una voce bassa e fragile, gentile e delicata. Così come strideva col suo sorriso. “Un’anima mite e buona”, per usare le parole di don Remo Baudrocco. Un uomo sensibile ed emotivo, che sapeva commuoversi per nulla. A chi gli diceva di non piangere per le stupidaggini, ché poi non avrebbe avuto più lacrime per le cose serie, rispondeva “allora in quel caso mi arrabbierò”. E infatti quello stesso uomo era meglio non provocarlo. Un’indole e un’irrequietezza che in passato lo avevano fatto anche finire nei guai. Inutile negarlo, non tutti lo amavano. Tanti, però, sì. E si sono radunati per dirgli addio.
Un applauso ha accolto la bara all’ingresso nella chiesa di Chiavazza, lunedì pomeriggio, e l’ha salutata quando ne è uscita, diretta verso l’ultimo viaggio di Clod. Commovente anche la reazione del suo cane che più d’una volta ha tentato di avvicinarsi al carro funebre e di seguire la bara in chiesa, trattenuto a forza da alcuni amici di Bracco.
Tra chi è accorso a salutarlo, gli aneddoti si sprecavano. Tutti avevano un Clod da raccontare, ognuno un po’ diverso dall’altro. Nessuno immaginava di dovergli dire addio così presto. In fondo Bracco per molti era una sorta di supereroe “sui generis”, con quella maschera, unica e per sempre, disegnata sul volto; le storie sul fatto che non sentisse dolore, una leggenda metropolitana, avevano contribuito ad alimentarne la leggenda in una piccola cittadina di provincia poco avvezza a fare i conti con la diversità.
«In realtà il dolore lo sentiva eccome – racconta chi lo conosceva bene -. La verità è che gli piaceva, lo controllava con una grandissima forza di volontà. E lo faceva stare meglio rispetto all’inquietudine e al dolore veri, quelli che aveva dentro da sempre».
Un continuo tentare di superare i propri limiti che lo aveva spinto, negli anni, a esperienze e passioni estreme, come quella di farsi appendere ai ganci.
Una leggenda che aveva anche varcato i confini del Biellese. Per arrivare in Sardegna, ad esempio, in posti come Porto Pino, dove fin da giovanissimo si è recato spesso: “La metà di quelli che vedi tatuati da quelle parti – raccontava -, li ho tatuati io”.
E quei disegni erano il suo tratto distintivo, soprattutto quelli che gli ricoprivano il volto. Nonostante potessero essere ingombranti. “Non ti preoccupare – diceva ridendo a chi doveva presentarlo “in casa” ed era preoccupato per le possibili reazioni dei familiari -. Appena inizieranno a conoscermi, mi ameranno”.
La sua morte, arrivata al culmine di una vita vissuta al massimo – nel bene e nel male – ha quindi colto tutti di sorpresa, anche se da tempo non stava bene. Una grave ernia lo costringeva ad assumere antidolorifici quotidianamente.
Alla fine fatale è stato un arresto cardiaco. Il suo cuore non ha retto.
Oltre all’amata figlia Luce, di nove anni, Bracco lascia la madre Bruna, la sorella Jessica, il fratello Massimo e la compagna Valentina.
La sua morte non è passata inosservata nemmeno sui social network. Proprio a Facebook la nipote Giordana ha affidato un bellissimo ricordo: “Ti ricorderò così come ti vedevo… il mio zio pazzo! Il mio padrino… Che mi ha insegnato a non avere pregiudizi, a vivere come voglio a dispetto delle apparenze. Volevi andartene come i grandi, con un grande chiasso, troppo giovane e a modo tuo! Ti ricorderanno tutti come quell’omone da non fare incazzare ma con un cuore enorme, ma io ti ricorderò semplicemente come mio zio. Dolce, tatuato e tutto a modo suo”.

Tatuaggi, piercing e anfibi, ma non solo. Era variegato il popolo silenzioso che lunedì pomeriggio ha riempito piazza XXV Aprile e la chiesa di Chiavazza per dire addio a Claudio Bracco, improvvisamente scomparso nel fine settimana a soli 40 anni.

 

Persone diversissime tra loro, unite dall’affetto per lui. Perché Claudio era così, o lo amavi o lo odiavi. Indipendentemente dal fatto che tu fossi un alternativo o un avvocato in giacca e cravatta. Perché per chi non lo conosceva Bracco era semplicemente l’uomo tatuato, il ragazzo col volto dipinto, ma per gli altri, invece, il “Clod” era tante anime in un corpo solo. Una persona dalle mille sfaccettature, con pregi e altrettanto innegabili zone d’ombra. Eccessi e debolezze. Cuore d’oro e lato oscuro. L’ex celebre buttafuori (e barista) della Bohème, ma anche l’uomo fragile; un giovanissimo e promettente portiere biondo della Chiavazzese, nei ricordi di chi lo ha visto crescere nel quartiere, un grande appassionato di arti marziali e cavalli, in quelli di chi lo ha frequentato da adulto. Ma anche un pittore, un artista, un amante delle sfide estreme, un figlio amorevole, un padre.

 

Un uomo spesso contraddittorio. Fin dalle apparenze: il suo aspetto insolito, che poteva incutere timore, si contrapponeva a una voce bassa e fragile, gentile e delicata. Così come strideva col suo sorriso. “Un’anima mite e buona”, per usare le parole di don Remo Baudrocco. Un uomo sensibile ed emotivo, che sapeva commuoversi per nulla. A chi gli diceva di non piangere per le stupidaggini, ché poi non avrebbe avuto più lacrime per le cose serie, rispondeva “allora in quel caso mi arrabbierò”. E infatti quello stesso uomo era meglio non provocarlo. Un’indole e un’irrequietezza che in passato lo avevano fatto anche finire nei guai. Inutile negarlo, non tutti lo amavano. Tanti, però, sì. E si sono radunati per dirgli addio.

Un applauso ha accolto la bara all’ingresso nella chiesa di Chiavazza, lunedì pomeriggio, e l’ha salutata quando ne è uscita, diretta verso l’ultimo viaggio di Clod. Commovente anche la reazione del suo cane che più d’una volta ha tentato di avvicinarsi al carro funebre e di seguire la bara in chiesa, trattenuto a forza da alcuni amici di Bracco.

 

Tra coloro che sono accorsi a salutarlo, gli aneddoti si sprecavano. Tutti avevano un Clod da raccontare, ognuno un po’ diverso dall’altro. Nessuno immaginava di dovergli dire addio così presto. In fondo Bracco per molti era una sorta di supereroe sui generis, con quella maschera, unica e per sempre, disegnata sul volto; le storie sul fatto che non sentisse dolore, una leggenda metropolitana, avevano contribuito ad alimentarne il mito in una piccola cittadina di provincia poco avvezza a fare i conti con la diversità.

 

«In realtà il dolore lo sentiva eccome – racconta chi lo conosceva bene -. La verità è che gli piaceva, lo controllava con una grandissima forza di volontà. E lo faceva stare meglio rispetto all’inquietudine e al dolore veri, quelli che aveva dentro da sempre».

Un continuo tentare di superare i propri limiti che lo aveva spinto, negli anni, a esperienze e passioni estreme, come quella di farsi appendere ai ganci.

Una leggenda, la sua, che aveva anche varcato i confini del Biellese. Per arrivare in Sardegna, ad esempio, in posti come Porto Pino, dove fin da giovanissimo si è recato spesso: “La metà di quelli che vedi tatuati da quelle parti – raccontava -, li ho tatuati io”.

E quei disegni erano il suo tratto distintivo, soprattutto quelli che gli ricoprivano il volto. Nonostante potessero essere ingombranti. “Non temere – diceva ridendo a chi doveva presentarlo “in casa” ed era preoccupato per le possibili reazioni dei familiari -. Appena inizieranno a conoscermi, mi ameranno”.

 

La sua morte, arrivata al culmine di una vita vissuta al massimo – nel bene e nel male – ha quindi colto tutti di sorpresa, anche se da tempo non stava bene. Una grave ernia lo costringeva ad assumere antidolorifici quotidianamente.
Alla fine fatale è stato un arresto cardiaco. Il suo cuore non ha retto.

 

Oltre all’amata figlia Luce, di nove anni, Bracco lascia la madre Bruna, la sorella Jessica, il fratello Massimo e la compagna Valentina.

 

La sua morte non è passata inosservata nemmeno sui social network. Proprio a Facebook la nipote Giordana ha affidato un bellissimo ricordo: “Ti ricorderò così come ti vedevo… il mio zio pazzo! Il mio padrino… Che mi ha insegnato a non avere pregiudizi, a vivere come voglio a dispetto delle apparenze. Volevi andartene come i grandi, con un grande chiasso, troppo giovane e a modo tuo! Ti ricorderanno tutti come quell’omone da non fare incazzare ma con un cuore enorme, ma io ti ricorderò semplicemente come mio zio. Dolce, tatuato e tutto a modo suo”.

 

Matteo Floris

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