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Tanta nostalgia degli anni ’90
Ah, la poeticità delle panchine. Due assi di legno grezzo, una mano di vernice scrostata dalle intemperie e quattro gambette secche a sorreggere milioni di ricordi.
Ah, la poeticità delle panchine. Due assi di legno grezzo, una mano di vernice scrostata dalle intemperie e quattro gambette secche a sorreggere milioni di ricordi.
Ora ci passi dinanzi e piangono solitudine, le nostre taciturne confidenti. Ma, almeno, ce ne sono ancora dalle nostre parti o spetterà loro il medesimo destino delle cabine telefoniche? Sono davvero cambiati i tempi, in così poco tempo, e Biella non ne è esente.
Solo qualche manciata di anni fa il mio mondo e quello dei miei coetanei ruotava letteralmente attorno a questa fascinosa figura, quando andare al parchetto di Vigliano nel primo pomeriggio era la vera trasgressione. In estate, in inverno, prima della scuola, dopo la scuola, invece della scuola, a scambiarci figurine, a scambiarci baci, a ridere del pettegolezzo o a piangere del voto. Lo si trovava sempre un buon pretesto per tenersi compagnia su quel paio d’assi scheggiate, nostre complici in tutto senza giudicarci mai.
C’erano, poi, le preferite, quelle comode per leggere, ormai sfondate dal trascorrere degli anni. Quelle dei sospiri, con il primo bacio e lo scricchiolio del legno che di innamorati non ne reggeva più. Quelle del liceo e delle sue bigiate. Quelle delle incisioni romantiche, quelle dell’“abbasso la squola” rigorosamente con la “q” e anche quelle del panozzo alla Nutella, senza mai avere un tovagliolino con sé per pulirsi la bocca.
La nuova generazione che ne sa del mio piccolo mondo antico che fu? Quando sbircio i nostri parchi semideserti le sento davvero piangere, queste povere panchine. Oggi, mi trovo di fronte a baby gang intente a rollarsi canne di cui non conoscono il contenuto e smaliziate ochette troppo prese a comunicare con l’iPhone anziché tra di loro.
Dove sono le fragorose, spensierate risate degli adolescenti biellesi? Che fine hanno fatto i commenti dei nonni, indignati alla vista delle impronte di scarpe sulle sedute delle panchette usate come poggiapiedi? Certo era che chi non usava lo schienale della sua panca come seggiola, rischiando il cappottamento, era decisamente uno sfigato.
Li voglio ancora sentire quei cazziatoni aciduli e voglio ancora vedere gli Uni Posca colorati tappezzare il mio legno cittadino. E vorrei tantissimo che i miei figli, un domani, vivessero le panchine, l’infanzia e la giovinezza proprio come le ho vissute io. Sarà possibile?
Silvia Serralunga
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