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“Non chiediamo miracoli, ma vogliamo rispetto”
La lettera scritta da alcuni dipendenti dell’Istituto Belletti Bona, amareggiati e frustrati per la situazione in cui è precipitata la casa di riposo.
La lettera scritta da alcuni dipendenti dell’Istituto Belletti Bona, amareggiati e frustrati per la situazione in cui è precipitata la casa di riposo.
Stiamo assistendo in questi giorni alla distruzione dell’Istituto Belletti Bona. E’ un fatto senza precedenti, visto anche il prestigio di cui la struttura ha sempre goduto.
La cosa sconvolgente è che si vuol far credere che il disastro sia la conseguenza dell’eccessivo costo del lavoro.
Come lavoratori ci sentiamo umiliati. Stiamo pagando un prezzo altissimo per colpe che non abbiamo commesso. La maggior parte di noi è vincitrice di concorso pubblico e le retribuzioni che ci venivano erogate non erano un’elargizione liberale ma il compenso legalmente e contrattualmente stabilito a fronte di un lavoro svolto.
Se negli anni il Belletti ha raggiunto livelli d’eccellenza riconosciuti è stato grazie all’impegno e alla dedizione di quanti hanno compiuto il loro dovere giorno dopo giorno.
Con tutto il rispetto per chi amministra e siede davanti ad una scrivania, è difficile capire cosa sia il nostro lavoro se non lo si vive sulla propria pelle.
E’ una professione delicata, fisicamente molto pesante e psicologicamente altrettanto impegnativa. Abbiamo la responsabilità di vite umane che ci vengono affidate. Tra le nostre competenze c’è il soddisfacimento dei bisogni delle persone anziane (e delle loro famiglie) e in una semplice frase c’è racchiuso il mondo di un individuo. Il fine vita è un momento di grande fragilità e va trattato con cura, ma sembra che di ciò importi ormai molto poco.
Probabilmente, in tempi di crisi, si tende tacitamente a seguire la strada della selezione naturale: i più deboli soccombono. I vecchi non servono più quindi… Tutto ciò per dire che anche chi cura i vecchi non merita poi così tanto rispetto.
Per chi come noi continua a credere in una società fatta di relazioni umane e solidarietà, trovarsi davanti ad amministratori che minacciano, usano frasi da terrorismo psicologico e trattano i lavoratori come se fossero gli unici colpevoli da punire, è sbalorditivo. Tra di noi non si parla d’altro che delle sorti del Belletti e tutti cercano di capire come sia potuto succedere. Forse la verità non la sapremo mai , forse nessuno ammetterà di aver fatto scelte sbagliate, di aver amministrato “allegramente” , di non aver avuto una visione realistica del futuro. Le responsabilità sono diluite nel tempo e nessuno si assumerà colpe, utilizzando il metodo consolidato dello “scarica barile”. L’unica certezza che abbiamo è che a tutt’oggi saremo noi a pagare insieme ai nostri ospiti . Ma questa è la storia di sempre.
La crisi c’è, l’Istituto è sull’orlo del baratro, e questo è un fatto. Ma ci saremmo aspettati di vedere i membri del consiglio presenti nei nuclei per condividere il nostro dolore e conoscere il nostro lavoro. Ci saremmo aspettati un incontro con le famiglie per spiegare la situazione e invece, a coloro che pagano fior di quattrini, siamo ancora una volta noi operatori a presentare la faccia ogni giorno e, colmo dell’ironia, ci è stato chiesto di rassicurarle perché se decidono di portare via gli ospiti “sarà peggio per noi” (cosi ci è stato detto giusto per farci capire, se non fosse già abbastanza chiaro, che ci conviene comportarci bene se ci teniamo al posto)
Ci saremmo aspettati che agli ospiti lucidi qualcuno doverosamente fornisse delle spiegazioni. E invece sono gli operatori a sorreggere, consolare, far finta che vada tutto bene.
Non è un po’ troppo tutto questo? Non vogliamo miracoli, non ci illudiamo che arrivi un deus ex machina che sollevi le sorti dell’istituto, ma vogliamo rispetto.
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