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Cronaca

“Vi racconto il suicidio di mio padre”

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“Soffriva da un anno di depressione. Era in cura, ma evidentemente non è bastato”. A parlare è Samuel Bernardo, figlio di Paolo, l’uomo trovato morto nella sua abitazione di Strona all’inizio della scorsa settimana. È stato proprio lui a fare la tragica scoperta. E adesso accetta di raccontare ciò che è successo.

“Soffriva da un anno di depressione. Era in cura, ma evidentemente non è bastato”. A parlare è Samuel Bernardo, figlio di Paolo, l’uomo trovato morto nella sua abitazione di Strona all’inizio della scorsa settimana. È stato proprio lui a fare la tragica scoperta. E adesso accetta di raccontare ciò che è successo. Perché il suicidio non è una vergogna, perché di suicidio si può e si deve parlare. Perché la depressione è una malattia e come tale va conosciuta e curata. “Non ci saremmo mai aspettati una cosa del genere – spiega -, perché mio padre è sempre stato una persona molto diretta, parlava e diceva le cose in faccia. Sì, è vero, stava male, ma nessuno immaginava che potesse compiere un gesto simile”.

Nell’ultimo anno, però, Paolo si era chiuso in sé stesso. Aveva affrontato la fine di una lunga relazione e si era ritrovato disoccupato. “Non credo che la perdita del lavoro abbia influito – racconta ancora il figlio -, anche perché era in gamba ed esperto, si adattava a tutto, qualcosa da fare avrebbe potuto trovarlo. Non è successo solo perché stava già male e quindi nemmeno si era messo a cercarla seriamente un’altra occupazione”.

Bernardo aveva diminuito sempre più anche le uscite: “Sembrava non aver più voglia di fare niente, parlava sempre meno. Si limitava ad andare a bere un caffè dal vicino di casa. Aveva dato dei segnali, ma subito non ci dai tutto questo peso, non pensi mai alla possibilità che una persona cara si tolga la vita”. E invece martedì l’epilogo è stato proprio questo. “La sera prima non mi aveva risposto al telefono – continua Samuel -, ma ho pensato che stesse già dormendo. Il giorno dopo ci ho riprovato. Volevo andare a trovarlo con la mia famiglia. Ho chiamato per avvisarlo e mettermi d’accordo, ma non mi ha di nuovo risposto. Iniziavo a preoccuparmi, così mi sono presentato a casa sua. Quando sono entrato ho scoperto cos’era successo”.

Oltre all’amarezza per la perdita, restano le domande. “Prendeva antidepressivi, psicofarmaci e ansiolitici. Eppure non è bastato. Anzi, mi sembrava sempre più svuotato. Forse sarebbe stato necessario un ricovero. So che a Cossato, al Centro di Salute mentale che lo seguiva, organizzano anche attività specifiche, hanno degli alloggi. Forse sarebbe stato utile un approccio diverso a livello umano e psichiatrico, forse avrebbe avuto bisogno di essere seguito più da vicino da un esperto, da qualcuno in grado di fargli tirare fuori ciò che aveva dentro. Avrebbe avuto bisogno di più dialogo, di qualcosa che andasse oltre la semplice somministrazione di medicine. Adesso però questi dubbi non servono a molto”.

Giovedì scorso amici, parenti ed ex colleghi lo hanno dovuto salutare per l’ultima volta. “Papà era un uomo di cuore, molto espansivo, una brava persona – lo ricorda il figlio -. Tanta gente quando è arrabbiata non lo dà a vedere, tiene le emozioni dentro. Lui no, parlava e le cose le diceva in faccia prima di iniziare a star male. Ora mi restano i suoi consigli e i suoi insegnamenti. Cosa posso dire, da figlio di una vittima, a chi sta pensando di farla finita? Di pensarci un milione di volte, di aspettare, di parlare. Non fatelo. Non fatelo per voi e non fatelo  per ciò che lasciate a chi resta”.

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