Cronaca
“Non possiamo tornare a casa, il vicino vuole ucciderci”
Si chiamano Elisa e Alessandro. Lei ha 29 anni e lavora in ambito sanitario. Lui ne ha 30 ed è consulente aziendale. Fino al 2012 vivevano nel Biellese. Poi si sono trasferiti per lavoro a Torino. E lì è cominciato il loro incubo.
«Abbiamo una storia da raccontare: non possiamo più tornare a casa nostra, il vicino vuole ucciderci».
Non capita tutti i giorni, per fortuna, di sentire parole come queste. E all’inizio si stenta addirittura a crederci. Lo sanno anche Alessandro ed Elisa, consulente aziendale di 30 anni, lui, 29enne operante in ambito sanitario, lei; per questo sembrano quasi in imbarazzo nel ripercorrere le tappe di un vero e proprio incubo.
Nel febbraio del 2012, per motivi di lavoro, la coppia biellese si trasferisce in un alloggio di proprietà situato in un palazzo di Torino. Tutto sembra filare liscio, almeno fino al giugno del 2014, quando inizia il loro calvario, una vicenda incredibile, della quale oggi Elisa e Alessandro hanno deciso di raccontarci la loro versione.
«Il primissimo episodio – premette Elisa – non ci ha coinvolti direttamente. A maggio riceviamo una telefonata da una nostra vicina di casa, era terrorizzata. Il ragazzo che vive al piano inferiore aveva improvvisamente bussato alla sua porta nel cuore della notte. Continuava a battere e a chiederle come stesse».
Inizialmente i due giovani non danno particolare peso alla cosa. A giugno, però, il vicino di 21 anni, che chiameremo Roberto (nome di fantasia) e che fino a quel momento si era sempre comportato in modo cordiale, rivolge le proprie attenzioni proprio ai due biellesi.
«Una domenica mattina – ricorda Elisa – ho sentito bussare. Era Roberto, diceva di volerci parlare, l’ho fatto accomodare e gli ho preparato un caffè. Appena si è seduto, la sua espressione si è trasformata, ha iniziato a delirare, era agitato e tremava. “Dovete smetterla” ci diceva».
«Gli ho chiesto di preciso cosa dovessimo smettere di fare – aggiunge Alessandro – perché, nonostante in passato non ci fosse stato alcuno screzio tra noi, ho pensato che magari, senza accorgercene, lo avessimo disturbato in qualche modo. Ma lui continuava a ripetere “lo sapete già”. E alla fine ha ribadito che quello sarebbe stato l’ultimo avvertimento, poi ci avrebbe ucciso. Oltretutto, nel suo sfogo pieno di rabbia, continuava a chiamarmi Paolo, ho provato a fargli presente che non mi chiamo così, che non sono io la persona con cui è arrabbiato, ma è stato tutto inutile».
Dopo questa prima disavventura, Alessandro minimizza, mentre Elisa comincia a preoccuparsi, intravedendo nel giovane vicino il rischio di una degenerazione violenta.
Martellate contro la porta.
Purtroppo i timori di Elisa si rivelano fondati a pochi giorni di distanza, il giovedì successivo. «Eravamo appena tornati da un funerale – continua a ricordare –, mi stavo cambiando quando all’improvviso ho sentito una donna gridare: “Roberto, no! Fermati!».
«Poi si sono uditi dei colpi – prosegue Alessandro -. Ho pensato provenissero dal piano di sotto e mi sono alzato dal divano per andare a dare un’occhiata. Mi sono fermato quando ho visto Elisa paralizzata davanti alla porta».
«Era lì fuori – spiega ancora la ragazza – e urlava: “Aprite! Vi ammazzo! Ve l’avevo detto!”. E’ stata la nostra vicina, dopo aver osservato la scena dallo spioncino, a dirci che Roberto non stava semplicemente colpendo coi pugni la nostra porta, l’aveva letteralmente presa a martellate. In quel momento abbiamo deciso di rivolgerci alle forze dell’ordine, così non poteva più andare avanti».
Sul posto arrivano quindi i carabinieri, parlano con la coppia di Biella e, successivamente, con il ragazzo, che sostiene di aver lasciato quei segni con un semplice anello e non con un martello. Dopo un confronto con la madre del giovane, i due decidono di non denunciarlo: «Era molto preoccupata – racconta Elisa – e spaventata, ci ha raccontato quanto fosse sempre più difficile contenere l’aggressività del figlio anche nell’ambiente domestico. Insieme a lei siamo così andati alla polizia e all’Asl per capire come muoverci. Purtroppo abbiamo scoperto di non poter fare granché: trattandosi di una persona maggiorenne, nessuno avrebbe potuto imporgli una visita psichiatrica, a meno che non si fosse mostrato concretamente pericoloso per sé o per gli altri».
Qualche giorno dopo Roberto torna a farsi vivo con loro, scrivendogli un biglietto di insulti. Esasperati e spaventati, decidono di andare a denunciarlo. Anche l’altra vicina di casa, che nel frattempo continua a ricevere “scampanellate” notturne, presenta un esposto per stalking. Azioni che non cambiano minimamente una situazione che, di lì a poco, sarebbe ulteriormente peggiorata in maniera imprevista.
L’aggressione in casa
«Una sera all’ora di cena – è la ricostruzione di Alessandro dell’episodio più sconvolgente –, all’improvviso Roberto ha iniziato a “ululare”: “Paolo… Ti uccido…”. Così sono uscito sul balcone e gli ho chiesto cosa volesse. Mi spronava a scendere, io sono rientrato in casa. Pochi minuti dopo abbiamo sentito il campanello, era lui, disarmato. Ho aperto la porta ed è entrato, era una furia».
Ne nasce uno scontro fisico: «Tentavo di contenerlo senza fargli del male, ho preso un pugno in faccia e mi sono ritrovato con la camicia strappata». Nel frattempo Elisa chiama il 113 e il 118. Allarmate dal trambusto, sopraggiungono anche la madre e una sorella di Roberto: «Erano sull’uscio di casa nostra – ricorda Alessandro – mi sono distratto un attimo e lui ne ha approfittato per saltarmi sulla schiena. Da dietro tentava di strangolarmi con le braccia, ma sono riuscito a liberarmi dalla presa. A quel punto, frustrato dal fallimento, è corso a casa sua per cercare il martello, la madre lo ha seguito ed è riuscita a chiuderlo a chiave all’interno. La sorella, invece, spaventatissima, è rimasta con noi».
I primi ad arrivare sono i carabinieri, ai quali era stata girata la segnalazione della questura: «Erano convinti di intervenire per una lite in famiglia. Quando hanno capito la situazione, sono scesi al piano di sotto e hanno trattenuto Roberto fino all’arrivo del 118». Il ragazzo viene quindi caricato in ambulanza: «Il medico lo ha convinto a salire dicendogli che lo avrebbe accompagnato all’ospedale per farlo refertare».
Elisa e Alessandro, pensando che l’incubo sia finito, vanno a loro volta al Pronto soccorso. E qui arriva la sorpresa: in sala d’attesa, come un qualsiasi paziente, c’è anche Roberto.
«All’accettazione aveva rifiutato la visita psichiatrica – chiarisce Elisa – e, non appena ci ha visti, ha ricominciato ad attaccare briga. A tenere sotto controllo la situazione sono stati i due giovani carabinieri che, avendo intuito che il Trattamento sanitario obbligatorio non fosse stato attivato, si sono presi la briga, per scrupolo, di fare un salto all’ospedale e controllare che fosse tutto a posto. In questa brutta storia, hanno avuto un ruolo fondamentale, non possiamo che ringraziarli».
A questo punto la scena, stando al racconto dei giovani biellesi, diventa quasi grottesca: «I carabinieri e i familiari di Roberto – prosegue Elisa – chiedevano a chiunque che venisse visto da uno psichiatra, che si procedesse con il Tso, ma il tempo passava e nessuno faceva nulla. Quando i carabinieri si sono allontanati, alla fine del turno, Roberto ha tentato di andarsene. Il fratello e una guardia giurata sono riusciti a trattenerlo e finalmente, dopo alcune ore, ha incontrato una psichiatra». La visita, però, dura ben poco: «Cinque minuti più tardi – ricorda ancora Elisa – abbiamo visto la dottoressa scappare dall’ambulatorio e chiedere aiuto. Per bloccare Roberto sono state necessarie quattro persone. Alla fine è stato ricoverato».
“Dovremmo vivere accanto a una persona che vuole ucciderci?”
Dopo l’episodio dell’ospedale, avvenuto a metà luglio, Roberto è stato sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio e ricoverato per sette giorni. Terminato il periodo, ha fatto normalmente ritorno alla propria abitazione, nonostante due denunce e un’informativa urgente alla Procura della Repubblica. Anche perché, in attesa che la giustizia faccia il suo corso, per il momento non è imputato in alcun processo. In questa situazione Elisa e Alessandro si sentono abbandonati dalla giustizia e dalle istituzioni.
«Se non fosse stato per sua sorella – si lamenta Alessandro –, non avremmo nemmeno saputo della sua dimissione, nessuno ci aveva avvisati. Lui è tornato e noi siamo stati costretti ad andarcene, anche perché pare che la permanenza in ospedale non sia servita a farlo desistere dalla volontà di ‘uccidere Paolo’».
La coppia ha quindi trascorso il mese di agosto a Biella. A settembre, però, entrambi hanno ripreso a lavorare nel Torinese.
«Per il momento – spiega Alessandro – siamo riusciti ad arrangiarci, ma non possiamo andare avanti così in eterno. Tuttavia, a parte l’ispettore della polizia investigativa che si sta occupando delle indagini, nessuno si è fatto sentire. Nessuno sa dirci cosa dobbiamo fare, come dobbiamo comportarci. L’unica raccomandazione che ci è stata fatta è quella di “essere pronti a chiamare il 113 perché il Tso si può fare sempre”».
I due giovani hanno anche preso in considerazione l’ipotesi di vendere o affittare l’appartamento, ma alla fine hanno rinunciato: «Con quale cuore – spiega Elisa – potremmo correre il rischio di mettere altre persone nella nostra condizione? Quel ragazzo è malato e pericoloso, ha bisogno di cure e deve essere seguito. Lo sappiamo noi, lo sa la famiglia, eppure nessuno interviene».
Il loro disperato appello è dunque rivolto alle istituzioni, alle quali chiedono di prendere provvedimenti prima che sia troppo tardi: «Quando torneremo nella nostra casa di Torino – si domanda Alessandro –, cosa succederà? Lui continua a delirare e a desiderare di prendermi a martellate, non si fermerà. La mia paura è che questa storia si possa risolvere solo con l’ennesima aggressione: quando avrà raggiunto il suo scopo e sarà riuscito a uccidermi oppure quando perderò la calma e la freddezza e mi difenderò. In entrambi i casi, qualcuno dovrà chiedersi cosa sia stato fatto per evitare tutto questo».
M. F.
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