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Biella

Teatro Bertola, i dolci inganni

Quando il sentimento ridiede un po’ di vita ai giardini

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Il meraviglioso teatro popolare di Porta Torino (Politeama Bertòla) sbocciò nel 1886 per iniziativa dello spedizioniere Eusebio Bertola, che lo allestì dentro un ampio cortile, coperto da tettoia e fornito di palco, platea, scenari, macchine e attrezzi, all’interno del palazzo con portici che, parallelo ai giardini, ancor oggi unisce lo sbocco di via Italia (all’epoca via Umberto) con l’imbocco di via Torino.

Ridiede un po’ di vita ai giardini, anche se la simbiosi tra teatro e giardini era migliorabile. Scriveva “La Tribuna Biellese” il 2 agosto 1891: “Il politeama è ben rischiarato, ma non farebbe difetto qualche lume di più all’entrata, ciò che inviterebbe maggiormente il pubblico che si reca a passeggiare negli oscuri recessi del nostro giardino”.

Il teatro chiuse dopo appena cinque anni di vita, quando era nel fiore della fortuna. La memoria presto svanì, ma il cuore rimase: come quando, fatto un bel sogno, al risveglio si perde la memoria del sogno, ma rimane l’impressione, a Biella rimase non il ricordo, ma il sentimento del teatro popolare di Porta Torino, destinato a germinare in altri tempi e luoghi della città.

Due anni prima della fine dell’esperimento, il giornale “L’Eco dell’Industria” usò, a proposito di Politeama Bertola, una parola che può illuminare il senso del teatro popolare: “illusione”. Quel teatro non era una conchiglia di bellezza né le sue scenografie erano memorabili né i suoi spettacoli erano quelli più nuovi. In una cornice ambientale così semplice che, a volte, il gracidio delle raganelle di Porta Torino faceva da coro allo spettacolo, solo la bravura degli attori e la nuda recitazione stimolavano la concentrazione, la fantasia e l’umanità degli spettatori nell’evocazione di ambienti e personaggi: “Di modo che – scriveva con una punta di ironia “L’Eco dell’Industria” il 6 giugno 1889 – dato un po’ di sforzo di concentrazione e anche un po’ di illusione sull’ambiente da parte dello spettatore si potranno gustare anche le più belle e più difficili scene dei migliori lavori drammatici”.

Così anche un giocattolo, quando è semplice, sollecita l’immaginazione; al contrario, se troppo elaborato, ne tarpa le ali. Teatro Bertola era un giocattolo semplice; ed era come una margherita, a cui facevano corolla gli spettatori, provenienti da ceti e ambienti diversi. Seduti in platea, formavano un’unica e variopinta umanità: il ricco e il povero, il colto e l’analfabeta, il benestante e il bracciante piangevano e ridevano tutti assieme. Anche loro erano spettacolo, perché, dentro la margherita del teatro popolare, ci si sentiva cittadini della medesima città. Almeno per una sera.

“L’Eco dell’Industria”, il 4 luglio 1889, nell’annunciare ai lettori la rappresentazione della commedia Il Bugiardo di Goldoni, prevista la sera stessa al Teatro Bertola con la recita della “Compagnia Gustavo Modena”, scriveva che “la schietta e buona arte comica del grande commediografo Goldoni, quando havvi chi la sappia far comprendere e gustare, ha presa non soltanto sulla parte eletta del pubblico, ma ancora su quella che predilige drammi a tinte forti”.
Quale commedia più adatta a far volare ricchi e poveri, eruditi e analfabeti, benestanti e braccianti sulle variopinte ali di una bugia? Quale commedia poteva meglio avvolgere di candida nebbia la navicella chiamata “Teatro Bertola”? Fino a sollevarla, con le illusioni, al di sopra delle nubi di una città così triste. Ma ti prego, Pantalone, non smascherare troppo presto le gioiose invenzioni del tuo figlio bugiardo! E tu, Arlecchino, metti pezze gialle, rosse e blu alle fantasiose menzogne del tuo padroncino!

La sera di giovedì 13 agosto 1891 la “Compagnia Antuzzi” portò in scena la tragedia Romeo e Giulietta di WilIiam Shakespeare, seguita dalla commedia La figlia di Jefte di Felice Cavallotti.

Il pubblico pianse per Giulietta, che a Romeo aveva dato il corpo e ora dava la vita. L’onda emotiva percorse la platea alla visione dei due giovani corpi, avvinti nella morte come lo erano stati nella vita. Si chiuse il sipario sulla tragedia di Shakespeare per riaprirsi, dopo una pausa, sul chiaro salotto di una nobile famiglia del diciannovesimo secolo: a destra un pianoforte; più avanti un tavolino con ninnoli e oggetti da signora, album, eleganti vasi di porcellana per fiori, vuoti; a sinistra, altri vasi simili sopra una caminiera a specchio e, in direzione opposta al pianoforte, un altro tavolino con cartoncini, disegni e libri riccamente rilegati.

Qui il conte Mario seguiva con lo sguardo Emma, la giovane che egli aveva sposato solo per non dover rinunciare all’eredità di un ricco zio (la condizione era infatti che non rimanesse scapolo). Mario era attratto da Emma, ma, quando cercava di toccarla, lei fuggiva, ricordandogli che ella era come la figlia di Jefte, il condottiero biblico che, alla vigilia di una battaglia, aveva promesso a Dio di immolargli la prima persona in cui si fosse imbattuto al ritorno; la figlia, essendo per prima andata incontro al padre vittorioso, fu destinata al sacrificio, ma chiese due mesi di tempo per piangere sui monti colle sue compagne. Anche Emma, che era stata destinata dal padre al sacrificio del matrimonio con un uomo che aveva avuto (e forse aveva ancora) una relazione con la baronessa Arsenia, aveva chiesto a Mario due mesi di tempo prima di offrirsi a lui.

Il colpo di scena nel gran finale: Emma invitò la rivale Arsenia, senza però farle subito gli onori di casa, ma lasciandola, per un po’, sola a trescare con Mario. Quando infine fece il suo ingresso in sala, Emma non apparve come la ragazzina “infagottata” che tutti avevano prima conosciuto: una splendida veste esaltava il corpo, le sue argute parole rivelavano intelligenza ancor più mirabile. Il marito, incantato, cadde ai suoi piedi; Arsenia, sconfitta e inviperita per il tradimento da parte dell’amante, lasciò la casa. Emma, con gesto repentino, prima di abbandonarsi gioiosa nelle braccia del marito, incoronò il proprio capo con una sacrificale ghirlanda di fiori. Non era forse lei la figlia di Jefte, finalmente pronta al sacrificio?

Il viso degli spettatori, già rigato da lacrime alla conclusione della tragedia, era tinto da un sorriso alla fine della commedia. O forse una lacrima furtiva scendeva ancora a velare il sorriso? Dal teatro popolare di Porta Torino il pubblico già usciva sotto un cielo di stelle.

Gianfranco Ribaldone

(continua sul numero
di sabato 24 giugno)

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