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«Vi racconto come ho lottato contro il tumore»

La coraggiosa storia di Shirley Chin

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«Non ho mai avuto paura di morire». Sono subito parole forti quelle pronunciate da Shirley Chin, 59 anni, di Cossato. Le hanno diagnosticato un linfoma, un tumore del sangue, che si è rivelato curabile con la terapia della chemio dodici mesi fa. «Ho accettato la malattia, l’ho affrontata e continuo a vivere. Non vedo l’ora di compiere i miei 60 anni per festeggiare la vita – aggiunge -».

Ad agosto dell’anno scorso stava per partire per gli Stati Uniti, come ci racconta. Aveva trovato un lavoro all’Università di New Hamphire, quando ha iniziato a non stare bene. «Dopo una decina di giorni ho disdetto l’impegno – prosegue Shirley -. È stato un grande dispiacere. Mi sono ritrovata ricoverata all’ospedale di Biella con la febbre alta, che è sempre stato il mio unico sintomo, a parte una irrilevante perdita di peso. Ho iniziato a pensare a qual era il mio nuovo ruolo nella vita, intanto mi hanno sottoposta a diversi esami, tra i quali due biopsie al midollo».

A Shirley, dopo aver curato il sintomo, avrebbero detto che poteva trattarsi di una malattia autoimmune.

«Sono stata dimessa, proseguendo la terapia a base di cortisone fino a ottobre. A novembre la febbre mi era tornata – prosegue -. All’ospedale di Biella di nuovo mi hanno tenuta sotto osservazione. I medici hanno scoperto che la milza era lacerata e andava tolta. Dopo l’intervento sono stata trasferita all’ospedale di Novara. Il tumore è stato diagnosticato dall’analisi della milza. Da lì sono stati predisposti i sei cicli di chemio. I primi non sono stati per nulla facili, avevo forte nausea. Sei cicli sono lunghi quando ti toccano. Passavo dal letto al tavolino, al bagno. Io e la mia compagna di stanza eravamo isolate per evitare infezioni. Non avevamo immunità.

«La giornata iniziava alle sei del mattino con la sveglia dei “vampiri”, gli infermieri che ci prelevavano campioni di sangue, tramite un catetere inserito in un braccio, che rendeva il prelievo meno doloroso del morso delle zanzare che infestano le risaie. Alle 6.45 iniziava il ruggito della macchina delle pulizie che correva su e giù per il corridoio. Entro le 7 faceva capolino un infermiere che gridava: “Termometro!”. La cosa triste è che le papille gustative si alterano e ti cadono i capelli a ciuffi. Le Oss, le operatrici mi aiutavano a lavarmi, a vestirmi e finivo per essere profumata come un uovo di Pasqua. La mia ammirazione a tutto il personale e ai medici va oltre le parole.

«Sarò sempre debitrice ai professionisti che si sono presi cura di me. Ho superato quel periodo facendo tante preghiere ogni giorno, rimanendo in collegamento video online con le amiche in America, in Venezuela e in Malesia, con cui ho studiato la Bibbia. L’impegno mi ha aiutato a trascorre il tempo, a staccare la mente dalla malattia. A quella ci pensava Dio. Io ero rassegnata».

Shirley ha sempre sentito la vicinanza dei suoi cari e dei fratelli. «Sono poi tornata a casa per qualche giorno, un toccasana per la mente, dormivo nel mio letto, passeggiavo in giardino, vivevo con la famiglia, cucinavamo insieme. Era bello. Si chiacchierava. Cose normali. Ho vissuto un giorno alla volta. So di essere di carattere forte e spiritualmente credente. Bisogna affidarsi. Penso di aver trasmesso coraggio a tutte le persone che mi sono state vicino. Quando sono uscita dall’ospedale, sono venuti a trovarmi dal Ghana, Namibia e dalla Nigeria; gli amici che ho incontrato nella vita. Ringrazio mio figlio Johnny, che è ritornato dagli Stati Uniti ogni volta che ha potuto; mia figlia Katye, studentessa a Londra, che è tornata per starmi vicino.

«Mi è spiaciuto disturbare le loro vite, però mi ha fatto capire di aver fatto un buon lavoro. Hanno agito senza obbligo, con il cuore. Ringrazio anche il mio ex marito Roberto che mi è rimasto accanto. La cosa più bella per me è stato sapere che a Natale i miei figli si sono trovati per stare insieme. Ero felice. Ora sono guarita. Periodicamente però mi sottopongo a controlli».

A questo punto ci mostra il suo “giornale”, una sorta di diario di bordo inerente alla malattia, scritto in madrelingua inglese e in italiano, e sorride orgogliosa: «Le amiche dicono che sono uno tsunami – conclude Shirley Chin -. Vivo e cerco di aiutare gli altri. A volte basta essere gentile. Non ho mai avuto paura. Non bisogna sentirsi vittime. Bisogna sbloccare la mente e apprezzare ogni istante della vita. Ricordiamoci di prendere tempo per noi stessi. Tutti ci meritiamo di essere felici».
Anna Arietti

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