Attualità
Uno studio dell’Anatomia Patologica di Biella verrà pubblicato su una rivista negli Stati Uniti
BIELLA – «La nostra esperienza dimostra che presto non ci saranno alternative alla Digital Pathology considerando che non possiamo escludere di dover affrontare nel futuro un’altra simile pandemia. Tale tecnologia ci ha consentito di garantire la continuazione dell’attività diagnostica anche in un periodo di grave crisi»: l’esperienza è quella di Daniele Liscia, dell’intero staff di Anatomia Patologica dell’ospedale di Biella, delle Università di Novara, con il contributo del professor Umberto Dianzani, e di Milano. In piena emergenza-coronavirus, questo gruppo di ricerca ha trasformato un ostacolo – dover essere presenti a ranghi ridotti in reparto e per il resto del tempo lavorare da casa – in un’opportunità. E l’opportunità è diventata uno studio, quello di sperimentare in modo ancora più esteso le diagnosi a distanza sui campioni di tessuto prelevati da possibili malati di tumore. La ricerca è destinata ad essere pubblicata sul Journal of Pathology Informatics, rivista ufficiale della società scientifica Association for Pathology Informatics statunitense.
Il sistema di digital pathology è basato su di uno “scanner” particolarmente sofisticato che trasforma i vetrini del microscopio in immagini digitali ad alta risoluzione visibili su internet e di una soluzione software d’avanguardia. Questo sistema (hardware e software) è al servizio dei pazienti dell’azienda sanitaria biellese dal 2018, da quando cioè è stato donato dalla Fondazione Tempia e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Biella. Da allora il numero di diagnosi effettuate, non più al microscopio ma attraverso un’immagine sullo schermo di un computer, è salito fino a 843 al mese, tenendo in considerazione i dati dell’anno scorso. Il primo vantaggio immaginato era di poter non solo tenere un archivio in forma digitale della storia clinica ed istologica di ogni singolo paziente ma di potere, attraverso la rete, chiedere un consulto o una seconda opinione a medici specializzati senza che fosse necessario spedire loro il vetrino. «Il nostro è un sistema completo perché è interfacciato e integrato con il software gestionale del servizio» precisa Daniele Liscia, direttore dell’Anatomia Patologica dell’Asl di Biella «ed è importante sottolinearlo perché molte istituzioni che affermano di utilizzare la digital pathology hanno in realtà solo uno scanner per poche immagini non in grado di gestire la mole di lavoro richiesta dalla routine quotidiana».
Le restrizioni e le disposizioni di sicurezza che hanno accompagnato l’emergenza-coronavirus hanno reso le diagnosi digitali l’unica via per poter garantire referti in tempi rapidi ai pazienti in attesa. «La maggior parte degli specialisti nel nostro ospedale» precisa Liscia «sono pendolari che percorrono dai 40 agli 80 chilometri in bus o in treno». Dall’inizio del lockdown il reparto si è riorganizzato in modo da garantire la presenza solo di due medici alla volta per i casi urgenti o i consulti in sala operatoria. Il resto si è svolto a distanza, «una pratica» assicura il primario «che già utilizzavamo spesso per casi urgenti quando il medico di riferimento non era in ospedale».
Le immagini ad alta risoluzione hanno così “viaggiato” per il web per arrivare agli schermi dei computer dei medici rimasti a casa. Le cifre dicono che, su 693 casi esaminati nel periodo preso in esame per lo studio (dal 9 al 27 marzo), sono stati 405 i referti redatti totalmente a distanza, pari al 58,4% del totale. E quando è stato necessario un esame più approfondito, è accaduto più spesso per richiedere una seconda opinione al resto del team (nell’8,4% dei casi) o un consulto ad un ulteriore patologo (4,2% del campione).
«Non sono mai risultati problemi» sottolinea Liscia «per la qualità dei colori o la risoluzione delle immagini, benché fossero esaminate sui monitor disponibili a casa», cioè quelli acquistabili in un qualsiasi negozio di elettronica, privi delle caratteristiche delle stazioni di lavoro in ospedale. La tecnologia è stata un’alleata anche per rendere rapidi i consulti collettivi: «Abbiamo creato un gruppo su WhatsApp, chiamato “Biella Pathology” dove arrivava il contributo di tutti per la diagnosi». In questo caso i dati personali del paziente in esame non venivano mai pubblicati, se si escludono età, sesso e dati clinici essenziali.
Tra i dettagli emersi c’è stata anche una propensione maggiore al lavoro di squadra: «Paradossalmente» osserva Liscia «avere a disposizione le sole immagini virtuali ha indotto un modo di lavorare più collaborativo tra i patologi. In più del 12 per cento dei casi la diagnosi è arrivata dopo che i campioni erano stati visti da almeno due specialisti, il che aumenta la qualità dei referti finali». E le conclusioni, su cui la comunità scientifica potrà confrontarsi traendone esempio, sono più che confortanti: «Il sistema consente con facilità ai medici di lavorare in remoto. Ancora più importante, nel periodo critico del nostro studio, la digital pathology si è mostrata uno strumento essenziale per mantenere la piena operatività del reparto».
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