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Un altro mondo era impossibile

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Per chi ha la memoria buona e ne porta traccia nell’animo, questi sono stati giorni di profondo disagio. Una sensazione di odore acre nell’aria da respirare e l’impressione di qualcosa di sé che è rimasto incompiuto: Genova 2001, 19 anni fa. Parecchi di noi hanno lasciato lì quel qualcosa di sé, che si ripresenta ogni anno come ferita intima mai rimarginata. Su quei giorni la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha già condannato l’Italia evidenziando una sospensione dello Stato di diritto e ha riconosciuto come ascrivibili al reato di tortura le violenze poliziesche subite dai manifestanti. E qui non è il caso di farne cronaca, che per quello basta farsi un minimo di ricerca online.

Qui è però il caso di rilevare come il tempo abbia lavorato sulla rimozione di quegli eventi e del loro significato: sembrano scomparsi dall’agenda sociale. In quei giorni sono stati davvero tanti i biellesi che con autobus organizzati, con viaggi in treno disorganizzati, con auto private riempite di colori si sono mossi dai nostri monti fino al mare di Genova. Movimento dei movimenti, trasversale in ogni sua componente: uomini, donne, giovani, famiglie, partiti, associazioni. Chi allora aveva vent’anni ora ne ha quasi 40; chi ne aveva 40 ora ne ha una sessantina. Giusto per capirci meglio. A tutti loro vorrei chiedere: come state, come vi sentite ogni anno a fine luglio? Come vi sentite adesso, a guardarvi attorno e a pensarvi allora?

Perché quello fu il momento più basso nella storia dell’Italia contemporanea e forse è giunto il momento di storicizzarlo davvero. Per parlarne con il sufficiente distacco emotivo, per quanto difficile possa essere per chi ne è stato, in qualche misura, coinvolto. Non si tratta di celebrarne i vivi e i morti in memoriam, ché lì non ci sono stati santi e nemmeno eroi. Ma di scacciare i fantasmi che ancora ci portiamo dentro.

Per le strade di Genova, nella Scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto siamo morti tutti un po’. E siamo rimasti esanimi dopo l’annichilimento di quel movimento dei movimenti. Ci siamo dispersi nello spazio del tempo che ci è passato addosso, con la voce rimasta spenta da allora. E questo era il chiaro obiettivo della politica del tempo, e che è rimasta la stessa: il Movimento andava delegittimato, a ogni costo. Ci provarono a Genova qualche tempo prima; ci riprovarono a Napoli a marzo di quell’anno. Ci riuscirono a Genova in quel luglio perché quel Movimento, 300mila persone in piazza e provenienti da ogni dove a rappresentare se stesse e la possibilità di un mondo migliore, alla violenza non ci aveva pensato e alla democrazia ci credeva. Fuori dalla retorica barricadera degli anni 60/70, con cognizione di causa su quale modello di sviluppo investire per il proprio futuro e quello delle generazioni a venire.

Genova non fu solo morte e la devastazione di un giorno, ma fu giorni di riflessione e somma di incontri ed esperienze, di competenze e possibilità, di suggestioni di estremo realismo e fiducia nel meglio. Un’occasione irripetibile per mettere a fuoco, e non a ferro e fuoco, il futuro sostenibile dei popoli. Perché per un mondo migliore ci vogliono persone migliori. Ma invece erano i giorni del neoliberismo rampante, che in quella piazza non si manifestò con il miglior Milton Friedman, ma con il peggior Pinochet.

La repressione fu messa in atto con l’intenzione di delegittimare i manifestanti soffocando la verità, senza però tener conto della tecnologia di massa che allora cominciava a diffondersi. Non erano ancora tempi di social media e tweet in diretta, ma erano già tempi di migliaia di macchine fotografiche e videocamere digitali. L’Internet libero e accessibile a tutti era ai suoi albori, ma è stato fondamentale per rimettere in circolo la verità di quella violenza: il re era nudo.

Ora, ricordo una sera di luglio dell’anno seguente: ci ritrovammo in pochi, in piazza del Monte, per affrontare insieme quel primo anniversario. Ricordo le facce attonite, le voci dimesse, l’impotenza nell’animo e una grossa incognita disegnata negli occhi. Ora, sono passati quasi vent’anni e mi chiedo: come stiamo adesso?

Per il resto, ci rivediamo a settembre.
Buone vacanze o quel che possono essere.


Lele Ghisio

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