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Ho finito l’ennesimo lavoro a tempo determinato

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Finisce agosto, finisce l’estate e finiscono anche i miei due mesi di lavoro. Ritorno studentessa a tempo pieno, con in bocca un po’ di quel fastidioso amaro che ogni speranza disillusa lascia. Fino all’ultimo ho sperato che mi rinnovassero il contratto, ma per il momento mi è stato detto che non c’era più bisogno di me. Per il futuro, si vedrà.

Finisce agosto, finisce l’estate e finiscono anche i miei due mesi di lavoro. Ritorno studentessa a tempo pieno, con in bocca un po’ di quel fastidioso amaro che ogni speranza disillusa lascia. Fino all’ultimo ho sperato che mi rinnovassero il contratto, ma per il momento mi è stato detto che non c’era più bisogno di me. Per il futuro, si vedrà.

Il pensiero di essere una dei giovani di quest’era di lavoro a sprazzi un poco mi angoscia. Dover ogni volta incrociare le dita di mani e piedi fino a due giorni dalla scadenza dell’impegno stipendiato, con il rischio ben concreto di essere lasciata a piedi, mi rende parecchio sconfortata sulla possibilità di costruire qualcosa di tutto mio a lungo termine.

Ma è pur vero che questo continuo riciclo di noi stessi a cui veniamo sottoposti non può che diventare occasione di eccezionale arricchimento. Aggiungo sul curriculum un altro pezzo di me, faccio tesoro di due mesi in cui ho vestito panni diversi e più umili di quelli che ridicolmente vengono etichettati come “sbocchi lavorativi” del mio “importante” Corso di Laurea.

Due mesi che mi hanno dato tantissimo. “L’abito non fa il monaco”, recita un proverbio che più che verità condivisa è un severo monito per tutti quanti. Perché in realtà l’abito il monaco lo fa eccome, e in questi mesi di persone che mi trattavano in base alla casacca che indossavo, spesso le stesse persone già incontrate nei panni di giornalista o di studentessa, suscitando tutt’altra risposta, ce ne sono state parecchie. Ogni volta realizzavo quanta genialità può nascondersi dietro il mestierante più umile, e quanta piccolezza dietro l’impiego più altolocato. Vestire tanti abiti e farsi tanti monaci, senza fossilizzarci almeno all’inizio su una posizione precisa, non può che fare di noi ventenni del 2015 persone più ricche e complete. A patto che lo si faccia con immutato impegno ed umiltà.

In due mesi ho riacquistato fiducia nell’umanità che mi circonda. E non sono paroloni gettati al vento. Lontano da ambienti universitari e circoli intellettuali pieni di gelosie e falsità ho ritrovato la gentilezza spontanea dei colleghi dei piccoli uffici dove sono stata provvisoriamente adottata, pronti al di là di ogni sospetto iniziale a perdere davvero del tempo per la mia “istruzione”. Forse dipendeva dal fatto che come ultima arrivata non costituivo un pericolo, ma di certo la mia cortesia è stata ripagata con altrettanta cordialità. I colleghi da un lato, le persone di paese dall’altra. Ho viaggiato da Curino a Mottalciata dimenticando spiaggia e mare per un’estate, ma quanti sorrisi veri mi sono goduta scambiando una manciata di parole giornaliere con la gente. I sorrisi che in una città come Torino e in un’università come Palazzo Nuovo vengono sepolti dalla fretta e da un’agenda piena di impegni.

Forse non abbiamo più così facile accesso a lavori che durino abbastanza a lungo da poter essere definiti “fissi”. Credo che però la forza stia nel riuscire a ribaltare la prospettiva, e a vedere questo saltellare da un impiego determinato all’altro l’occasione di provare con mano, e non soltanto scegliere a livello teorico, chi e cosa vogliamo essere da grandi. Arricchendoci ogni volta di un tassello che solo una nuova esperienza può donare. Soltanto se ce la si mette comunque tutta fino in fondo. E possibilmente divertendosi ogni volta, trovando il bello che ogni sguardo diverso sul mondo può regalare.

Gaia Quaglio

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