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Biella

A proposito di giustizia

Intervento dell’ex assessore comunale di Biella, Flavio Como

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flavio como

Recenti vicende a carattere giudiziario e, in certi casi, politico non possono non aver scosso le diverse sensibilità di chi non si ferma alla lettura o visione superficiale dei fatti.

Non ho titoli accademici per dissertare sulla complessità e sulla delicatezza di questioni la cui analisi e gestione riguarda livelli alti di competenza e di responsabilità. Essere cittadino italiano però mi gratifica e nel contempo mi impone di non assistere da semplice spettatore a quanto, nel sistema civile e sociale del mio Paese, tocca la vita individuale dei miei concittadini e connazionali. Inoltre essere figlio immeritevole ed erede responsabile di una cultura di valori ed ideali che sono diventati il fondamento della nostra Costituzione, mi assicura la libertà e il diritto di esprimere i miei pensieri.

Allora non limitarmi ad assistere si traduce in osservare, considerare, valutare non cullandomi in una pseudorassicurante riservatezza o , peggio, pavida intimità. Premetto che non voglio nascondermi, perché non ne ho motivo e sono coerente con gli ideali che ispirano le mie scelte: sono di parte, chi mi conosce lo sa, ma questa posizione non mi ha mai condizionato – chi mi ha conosciuto lo sa – nella vita pubblica, nel corso della quale la dialettica e il confronto sono sempre stati improntati al rispetto e alla lealtà. Pertanto chiarisco subito che non intendo accendere la miccia per l’esplosione di sterili polemiche; inoltre che non sono per nulla attratto dalla querelle, il più delle volte strumentale e faziosa, tra garantisti e giustizialisti. Oggi si è in questa o quella posizione secondo il colore del bersaglio che viene colpito o minacciato (basta anche soltanto “avvisato”).

Nel tralasciare il recente caso del capo della polizia libico – che meriterebbe più documentate e approfondite considerazioni – mi soffermo brevemente su alcune situazioni, fra loro disgiunte, nelle quali ho riscontrato non tanto divergenze di opinioni e contrasti ideologici, quanto piuttosto l’assunzione o meno di comportamenti in parte discutibili, in parte contraddittori. Ho davvero apprezzato vari momenti di accoglienza da parte della presidente del Consiglio in occasione della liberazione di nostri connazionali, ingiustamente detenuti in Paesi stranieri, come Cecilia Sala. Per questo ancora oggi faccio fatica a comprendere quale impulso emotivo o razionale, se non addirittura istituzionale, abbia spinto la stessa presidente a portare il saluto del Governo – quindi del popolo che rappresenta – a Chico Forti al suo arrivo (2024) dagli Stati Uniti, da cui è stato estradato dopo una condanna all’ergastolo per omicidio, pena che deve scontare in Italia.

Questa è la condizione posta per l’estradizione, le cui motivazioni di carattere umanitario (riabbracciare la madre, mi pare) non voglio mettere in discussione. Ma allora, se qui siamo di fronte ad una sentenza definitiva, emessa da autorità giudiziarie di un Paese democratico, che ha per oggetto non un presunto crimine, ad esempio contro la sicurezza nazionale, ma un grave omicidio, è legittimo chiedersi il significato – per me oscuro – di un’accoglienza riservata pubblicamente a Forti dal capo del Governo, tale da renderne partecipe anche il popolo italiano. Si tratta di una simbologia che rappresenta lo Stato padre e madre del figlio prodigo, in questo caso tornato sì a casa, però non da pentito e per il quale sarebbe esagerato arrostire il vitello grasso?
Ilaria Salis. Manifestazione di piazza a Budapest (2024), scontri violenti – non incontri pacifici – tra fazioni avverse, reati rubricabili nel codice penale ungherese, e non solo. Arresto della “criminale”, detenzione senza la formalizzazione di accuse fondate sulla veridicità dei fatti incriminati, esibizione pubblica e mediatica in catene nell’aula del tribunale. Ora, parlamentare europea, a rischio di condanna (in contumacia?) a ventiquattro anni di reclusione. Poco meno dei trent’anni di pena comminati in Italia recentemente a Salvatore Montefusco, duplice assassino della moglie e della figlia, al quale il tribunale ha riconosciuto l’attenuante di “motivi umanamente comprensibili”. Si dirà, Paesi diversi, differenti legislazioni, casi di natura giuridica non paragonabili tra loro. Entrambe tuttavia chiamansi democrazie. A questo proposito non so se la nostra ne sia la migliore forma, ma chi può negare che grazie ad essa hanno trovato legittimamente posto in Parlamento anche coloro che hanno praticato duramente la lotta e l’antagonismo politico nelle piazze?

Parrebbe non c’entrare nulla e infatti lo lascio per ultimo Beniamino Zuncheddu – Carneade, chi era costui? – che in effetti è proprio l’ultimo, in quanto la sua è una storia senza particolare risonanza, se non quella dei primi momenti di scarcerazione (2024) dopo trentadue anni di detenzione da innocente. Condannato per un triplice omicidio è stato assolto e rimesso in libertà lo scorso anno al termine di un processo di revisione. All’uscita dal carcere di Uta con tre borse di plastica, ha incontrato l’abbraccio della sorella e di due nipoti. Senza rancore, ma con amarezza ha subito detto: “Nessuno potrà darmi quello che ho perduto. Desideravo una famiglia, mi hanno rubato tutto”. Ecco, a parte qualche dovuto e non esaustivo risarcimento in denaro, un saluto all’uscita dal carcere da parte di qualche autorità di governo (non direttamente responsabile, ovvio), con le scuse in rappresentanza del popolo italiano, sarebbe stato almeno opportuno e avrebbe ristabilito un livello di “equità” nel trattamento di casi personali assai differenti e incomparabili. E forse sarebbe stato un gesto moralmente risarcitorio nei confronti di tanti altri condannati ingiustamente, rappresentando davvero la paternità e la maternità dello Stato.

Flavio Como

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