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La riscostruzione storica dell’eccidio di piazza Martiri

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Arrivati in piazza, una parte dei militi scese e si schierarono, quindi fecero scendere i prigionieri e il rimanente dei militi […] Mio fratello Pietro, allora, si tolse la giacca e la diede a Firmino [l’autista della corriera] […] Si rimboccò le maniche della camicia, poi chiese a Firmino se aveva una sigaretta: Firmino gliela accese e Pietro se la mise tra le labbra, poi prese sottobraccio Martino e Giovanni – gli altri due di Donato –, si avviarono verso il gruppo in centro della piazza nelle vicinanze del cumulo di terra che copriva il rifugio antiaereo […] i ragazzi vennero fucilati prima cinque, poi altri cinque che dovettero passare sui corpi dei primi cinque, e così fino al quarto gruppo formato dagli ultimi sei che dovettero assistere alla fucilazione, dei quindici compagni che li avevano preceduti, attendendo la loro”

Intorno alla metà di maggio del 1944 il fronte italiano, dopo mesi di stallo, si rimise in movimento: le armate statunitensi e britanniche riuscirono finalmente a sfondare la linea difensiva tedesca a sud della città di Roma, che fu raggiunta e liberata il 4 giugno. Le conseguenze di questi  mutamenti intervenuti nella situazione generale non tardarono a farsi sentire sul territorio italiano ancora occupato dai tedeschi, e in particolare nelle regioni del Nord. La perdita della capitale – ha osservato Pierfrancesco Manca – “fu un colpo pesantissimo per la Rsi e modificò la situazione anche sul piano della lotta ai ribelli”: per far fronte all’avanzata angloamericana, tedeschi e fascisti furono infatti costretti a ritirare alcuni dei reparti impegnati nella lotta antipartigiana. La riorganizzazione dello schieramento nazifascista riguardò anche il Biellese: all’inizio di giugno la legione “Tagliamento” fu inviata nella Marche e il battaglione “Pontida”, comandato a sostituirla, fu ben presto trasferito in Valdossola. L’esiguità delle forze schierate sul campo obbligò i fascisti a ridurre il numero dei presidi presenti sul territorio, agevolando così la ripresa delle formazioni partigiane biellesi che nel breve lasso di un mese (tra maggio e giugno) aumentarono i propri effettivi da 1.100 a 1929 uomini.

Alla fine di maggio i nazifascisti furono comunque ancora in grado di organizzare un vasto rastrellamento che interessò tutto il bacino superiore dell’Elvo, area presidiata dai circa 400 garibaldini dei distaccamenti “Nino Bixio” e “Caralli”, protagonisti di una vivace attività di guerriglia. Il rastrellamento ebbe inizio la mattina di domenica 28 maggio. Tedeschi e fascisti, dopo aver bloccato tutte le strade di accesso, si mossero da tre direzioni (dalla valle dell’Elvo, dal Canavese e dalla Valle d’Aosta): “Presi di fronte e di fianco – riporta il diario storico della 75ª brigata Garibaldi – […] dopo due giorni di brevi scaramucce ed occultamento, davanti a così grande forza nemica [all’incirca 4000 uomini] sono costretti, come desidera il nemico, a ritirarsi sulla cima del M. Barone e qui si accorgono di essere presi alle spalle (dalla valle di Gressoney) senza alcuna via di scampo”. Il buon esito del piano di accerchiamento messo in atto dai tedeschi fu dovuto soprattutto all’elemento sorpresa: “Il rastrellamento del 28 maggio – ha affermato William Valsesia “Bibi”, commissario politico del distaccamento “Caralli” – sorprese praticamente tutti e i primi ad esserlo furono i comandanti del “Bixio” e del “Caralli”; Primo Corbelletti “Timo”, comandante del “Caralli”, ha sottolineato le gravi difficoltà in cui il suo distaccamento venne a trovarsi negli ultimi giorni di maggio, difficoltà legate soprattutto al crescente numero di giovani entrati a far parte dell’organico della formazione a seguito della scadenza del bando di richiamo emanato da Mussolini il 18 aprile 1944: “[…] il nostro distaccamento […] nel giro di pochi giorni vide aumentare di alcune centinaia di unità i suoi potenziali effettivi […] Provenivano un po’ da tutti i paesi della Serra e dal Canavesano, ma anche dalla zona di Netro e Donato. Per noi del comando la loro sistemazione rappresentò subito un problema la cui soluzione poteva essere risolta solo con un po’ di tempo davanti […] Per le armi […] c’erano solo quelle che disponeva il distaccamento “Caralli”, quindi neanche a parlare di poter armare tutta quella gente”.

Di fronte all’incalzante avanzata nazifascista che convergeva verso la sommità del Mombarone, i membri del comando del “Bixio” e del “Caralli” optarono per l’unica soluzione alternativa alla resa: “[…] la risposta partigiana più adeguata alle condizioni imposte dal nemico – ha ricordato ancora William Valsesia – era di riuscire a passare attraverso le maglie del rastrellamento, e puntare verso il basso. Tutti gli armati sarebbero passati in uno o due punti dello  schieramento nemico attaccandolo in forza e di sorpresa, là dove fosse stato necessario. Tutti i disarmati dovevano riuscire a muoversi inosservati passando in un altro punto e in tempo prima che la trappola venisse a chiudersi definitivamente”. Il tentativo messo in atto nella notte tra il 28 e il 29 maggio andò a buon fine e permise alla maggior parte degli uomini dei due distaccamenti di sganciarsi e di sfuggire così alla cattura. Le perdite furono comunque elevate: quattro garibaldini rimasero uccisi (Giovanni Orlassino “Copia”, Pietro Paludi “Rosetta” e Mario Stesina “Freco”, del dist. “Caralli, e Dante Simonetti del dist. “Nino Bixio”) mentre altri dodici furono fatti prigionieri nei giorni successivi. Terminato il rastrellamento nella zona del Mombarone, tedeschi e fascisti rivolsero la loro attenzione ai paesi della Serra, definiti da Luigi Moranino “santuari del partigianato”: nel corso di questa azione il 3 giugno furono catturati altri sette garibaldini e un giovane di Torrazzo, Vittorio Menaldo. Tutti i prigionieri furono condotti a Biella e incarcerati al Piazzo: considerati “fuorilegge” in base al bando del 18 aprile, erano destinati alla fucilazione.

La mattina del 4 giugno 1944 i ventuno ragazzi (il più anziano, Giovanni Cossavella, aveva 33 anni) furono prelevati dal carcere dai militi fascisti del 115° battaglione “Montebello” e condotti in piazza Q. Sella su una corriera della società Fossati. Per rievocare quei drammatici momenti ci affidiamo alla testimonianza di Rina Valè, sorella di Pietro, uno dei partigiani fucilati quel giorno: “Arrivati in piazza, una parte dei militi scese e si schierarono, quindi fecero scendere i prigionieri e il rimanente dei militi […] Mio fratello Pietro, allora, si tolse la giacca e la diede a Firmino [l’autista della corriera] […] Si rimboccò le maniche della camicia, poi chiese a Firmino se aveva una sigaretta: Firmino gliela accese e Pietro se la mise tra le labbra, poi prese sottobraccio Martino e Giovanni – gli altri due di Donato –, si avviarono verso il gruppo in centro della piazza nelle vicinanze del cumulo di terra che copriva il rifugio antiaereo […] i ragazzi vennero fucilati prima cinque, poi altri cinque che dovettero passare sui corpi dei primi cinque, e così fino al quarto gruppo formato dagli ultimi sei che dovettero assistere alla fucilazione, dei quindici compagni che li avevano preceduti, attendendo la loro […] Al termine dell’eccidio un graduato fascista passò e diede il cosiddetto «colpo di grazia» a tutti, scostando la testa dei morenti con un calcio del piede”. Per tutta la durata dell’esecuzione risuonò il fischio delle sirene dell’allarme antiaereo. I corpi dei ventuno partigiani furono lasciati sulla piazza, piantonati da tre militi del battaglione “Pontida”: “Per ordine dell’Autorità germanica – comunicò quella stessa mattina il questore di Vercelli Sartoris al capo della provincia Morsero – i cadaveri stessi devono rimanere per 24 ore sul posto”. L’intervento dell’ufficiale sanitario di Biella, prof. Guido Masserano, e del vescovo Carlo Rossi fu determinante al fine di consentire la sepoltura dei fucilati di piazza Q. Sella in una fossa comune dietro al cimitero cittadino; solo al termine della guerra le salme furono traslate nei paesi di origine.  

Il giornale fascista “Il Lavoro Biellese” pubblicò un articolo intitolato “Vittime (Ma di chi?)”, chiaro esempio della frattura ormai insanabile esistente tra i sostenitori della Repubblica sociale e la popolazione civile: “Domenica scorsa ventuno ribelli sono stati passati per le armi su di una piazza cittadina […] erano italiani che avevano voluto, ribellandosi all’ordine instaurato dalla Repubblica, sordi all’appello durato, a mezzo del bando del Duce, un mese, anziché deporre le armi e presentarsi entro il 25 maggio, perseverare nell’ostinata condotta […] Di che dunque, se si vuole usare tale termine, furono vittime se non di una pervicace volontà che ha volutamente disatteso ogni morale politica, civica e famigliare; che ha respinto i consigli alla ragione giunti da molte parti, spesso dal loro stesso focolare?”. L’evidente scopo dell’articolo era distogliere l’attenzione dai reali responsabili dell’eccidio per indirizzarla contro “quegli altri che ben altrimenti consigliarono; che indicarono la macchia ai più temerari e, rimanendo però essi prudentemente in città […] che guidarono all’inizio i plotoni ribelli per abbandonarli al primo pericolo […] che ancora incoraggiano assicurando che gli invasori, anzi sadicamente chiamati «liberatori», giungeranno in tempo […] coloro che oggi ancora consigliano, scommettono e, peggio, pagano”. Decisamente sconcertante, oltre che offensiva nei confronti dei parenti delle vittime, era la considerazione finale: “Un giorno, se anche una legge aberrante fatta da uomini dovesse mai perdonare, il pianto delle madri chiederà conto a costoro: sono essi infatti, soltanto essi, che hanno ucciso i loro figli”. 

rolando.magliola@gmail.com


 

 

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