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Una città giù di murale

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Fonzarelli di provincia

È faticoso dare l’avvio a un incipit dal sapore surreale, ma è cosa che, periodicamente, ci tocca. Lungi dal voler spalare sulla Croce Rossa – no, non è un refuso – ma se scacciamo i writer brandendo una pala non ci rimane altro, se non tornare alla ribalta della cronaca per farci ridere un po’ dietro.

È successo a un graffitista, di Barletta e noto a livello internazionale, ospite in città per l’inaugurazione della mostra “Banksy, Jago, TvBoy e altre storie controcorrente” allestita a Palazzo Gromo Losa; reo di avere nottetempo risposto all’appello del nostro sindaco che, alla vernice della mostra, pare abbia invitato gli artisti presenti a lasciare una testimonianza del loro passaggio sui muri della città.

Non era però dell’idea un residente che, interpretando il gesto artistico come atto vandalico, si è precipitato in strada scalzo e armato di pala per dissuadere e allontanare il graffitista dal muro di casa. Non è il caso di indagare chi o come possa avere facoltà di discernimento tra un’opera d’arte e un imbrattamento (il muro era già comunque brutto di suo e ne avrebbe solo guadagnato), ma è evidente che la soggettività lo rende un esercizio scivoloso.

Il tema è trattato all’articolo 28 del comunale “Regolamento di Polizia urbana” che, al titolo “Scritte e graffiti”, recita: “Salvo deroga espressa dell’Autorità Comunale, è vietato realizzare, su edifici, monumenti, opere e su qualsiasi manufatto pubblico o privato la cui facciata sia esposta in area a uso pubblico, disegni, scritte e simili”. Che poi tale deroga venga espressa verbalmente con un aperitivo in mano è quantomeno singolare. In ogni caso è questo il motivo per cui i writer ostentano un fiero e necessario anonimato, e operano a notte fonda.

Fa altrettanto sorridere il fatto che una testata locale riesca a titolare, a distanza di un giorno: “Giovane imbratta il muro di un palazzo, scoppia la lite con i condomini” e “L’artista Rizek realizza un murale in centro città, lascerà il segno?”. Doppiopesismi. Certo i biellesi si faranno più attenti quando capiranno che il loro muro “imbrattato” da nomi noti della street art accrescerebbe, e di molto, il suo valore.

La street art è questo, anche e non soltanto, ma questo. È pulsione artistica e gesto politico rivoluzionario. Perché tentare di abbellire spontaneamente le città, anche se con una buona dose di narcisismo, è rivoluzione. E forse è per questo che le amministrazioni cittadine mal sopportano il fenomeno, anzi, si danno proprio un bel daffare per reprimerlo o, nel migliore dei casi, per emarginarlo. Liquidandolo come roba da ragazzini in preda a vandalismo compulsivo, da soddisfare con un muricciolo cadente ai margini del vivere sociale (noi l’avevamo fatto col muro dello stadio).

Sfugge la diversa prospettiva di sguardi che il colore, il messaggio e anche uno scarabocchio possono dare a un ambiente degradato, alle rovine urbane vittime d’abbandoni e altre speculazioni. D’altronde viviamo un territorio caratterizzato da certo calvinismo che ha sempre apprezzato il mattone e mai l’arte, se non quella da rinchiudere in un caveau in attesa di tempi migliori per farne mercato. Anche a Biella, con tutta quell’archeologia industriale nascosta e irraggiungibile che lasciamo morire nel tempo.

Riconosciamo quindi il valore della mostra in corso al Piazzo, almeno nella sua capacità didattica di diffondere maggiore consapevolezza sul tema. Ci resta però qualche grosso dubbio. La mostra, di seconda mano perché già esposta lo scorso anno a Bologna, si somma, di fatto, alle decine di altre mostre che ricorrentemente usano a scopo promozionale il nome della star mondiale Banksy, che ha più volte dichiarato come siano tutte dei “fake”, visto che da lui non sono autorizzate.

D’altro canto mostre come questa sono destinate a creare un certo straniamento: nell’era della riproducibilità dell’opera d’arte, amplificata dall’avvento del digitale con annessi e connessi, sulla quale è dai tempi di Wharol che discutiamo, desta perplessità l’operazione di ridurre in una sala espositiva la dirompente forza visiva della urban art, il cui habitat naturale sono i muri delle città di cui amplificano il contesto.

Il risultato non può essere che una somma di litografie, cartonati e copie su tela: una sorta di catalogo appeso al muro in cui è assente la “presenza” dell’artista, quella che si respira di fronte a ogni originale e dovrebbe essere lo scopo primigenio di tutte le mostre. Del resto viviamo tempi strani, in cui anche le bolle Nft esplodono e non è più l’arte a essere pop, ma il suo pubblico.

Altro dubbio viene da sollevarlo quando tra le righe dei comunicati diffusi per la promozione della mostra si legge: “Biella diventa un nuovo punto di riferimento per le grandi mostre d’arte”. Un’ambizione revivalistica che ci riporta indietro di una ventina d’anni. E non è andata benissimo.

Lele Ghisio

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1 Commento

1 Commento

  1. Sonia

    31 Ottobre 2023 at 18:52

    Poteva chiamarlo a casa sua il pittore barletta, cosi’ eravate contenti, tutti noi lo saremmo che questi lords verniciassero casa propria.

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