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Quei campetti dove imitavamo Gianluca Vialli

Tra le righe, la rubrica di Enrico Neiretti

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Nel 1991 la Sampdoria vinse il campionato di calcio. Fu l’ultima vittoria di una squadra di una città che non fosse Torino, Milano o Roma.
In quella squadra, guidata dall’istrionico tecnico Vujadin Boskov, famoso per le espressioni e le massime, c’erano tanti calciatori di talento. Come Gianluca Pagliuca, Pietro Vierchowod, Toninho Cerezo.

Ma soprattutto c’era una straordinaria coppia d’attacco, due giovani che avrebbero poi scritto pagine importanti nella storia del calcio italiano: Roberto Mancini e Gianluca Vialli. Vialli fu anche il capocannoniere della stagione e trascinò con i suoi goal la Sampdoria verso la vittoria del campionato.

Io nel 1991 avevo vent’anni e avevo già smesso di seguire il calcio. In realtà il calcio non l’avevo mai capito molto; ero stato tiepido tifoso più per conformismo e tradizione famigliare che per reale passione. Mio fratello Stefano, che allora di anni ne aveva diciotto, era invece appassionatissimo: era cresciuto sul terreno polveroso del piccolo campo di calcio di Sordevolo, quello appena dietro le scuole, seguiva la serie A e non si perdeva una partita delle coppe europee in TV. Ma era soprattutto un ottimo giocatore, un attaccante, un centravanti, un numero 9, proprio come Gianluca Vialli.

E’ colpito dalla notizia della morte di Vialli. Mi scrive, mi chiama, poi mi racconta: «Vialli ha nove anni più di me. Una differenza d’età, che quando di anni ne hai diciotto, è consistente ma non abissale. In qualche modo quando ti affacci all’età adulta, mischiando ancora gli entusiasmi infantili e le asprezze adolescenziali con una nuova consapevolezza, guardi quelli più grandi di te e ti sembra di vedere come sarai da lì a qualche anno.

E io guardavo Vialli, mi ispiravo a Vialli: in quelle domeniche pomeriggio, quando entravo in campo inebriato dall’odore dell’erba del terreno di gioco, dell’olio di canfora spalmato sui corpi, del sudore, del grasso sulle scarpe da calcio, mentre sentivo crescere dentro di me quella miscela di agonismo fatta di fatica, sofferenza, amicizia, gioia, pensavo a lui, al giovane campione, al mio riferimento, al numero 9. 9 come il numero della nostra maglia, nove come gli anni che ci separavano.

Vialli era un attaccante duro, spigoloso, irruente, molto fisico: cosce grosse, gomiti larghi, ma anche piedi buoni e grande visione di gioco. Un calciatore sì al servizio della sua squadra, ma con un unico grande fine: il goal. E per me il goal è sempre stato il momento dell’estasi, della gioia pura, un’emozione forse indescrivibile per chi non ha giocato a calcio.
Ecco, in quei campi del biellese, nelle domeniche fredde e umide di certi inverni, o nel caldo e nella luce di primavera, io mi sforzavo di imitare il calcio di Gianluca Vialli.»

Lo ascolto e penso che il tempo che passa tende ad assottigliare le differenze, a spiegarti che i mondi apparentemente diversi -persino divergenti- che ci sembra di vivere in gioventù, in realtà sono semplicemente declinazioni differenti delle medesime emozioni.
Io ho conosciuto meglio il Vialli degli ultimi anni, l’uomo purtroppo malato che cerca con forza e determinazione di portare una visione positiva in quel destino tremendo.

Ho guardato il suo viso, ho ascoltato la sua voce serena e gentile, ho afferrato le sue parole accurate, nette e precise eppure dense di emozione. E ho ammirato anch’io quel campione elegante e raffinato, quell’uomo capace di raccontare. Un campione questa volta impegnato in una sfida di ancora più grande di un goal o di uno scudetto: affermare la propria visione della vita. Non contro il male -un vero campione sa bene che contro la malattia non c’è molto da combattere- ma per un obiettivo altissimo: testimoniare la bellezza, la forza e l’amore per la vita anche quando un male ti opprime.

Ecco, questa è stata la grandezza di Gianluca Vialli trent’anni dopo quella storica vittoria con la Sampdoria. E in questa grande forza, nelle sue parole meditate, corpose, dense di umanità ci siamo ritrovati in molti, appassionati di calcio e non, a vederlo ancora come un riferimento. Questa volta le differenze di passioni, di età, di vita sono evaporate via.

Sono rimaste una profonda emozione ed una strana malinconia. Una malinconia che addolora per la perdita ma che ha coscienza di ciò che rimane. Come un gesto atletico, come un dribbling, come un grande goal; immagini impresse nella memoria. E di Vialli rimangono le parole, la testimonianza, e quella voce garbata che racconta.
Enrico Neiretti

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