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“Parole d’odio, chi tace rischia di diventare complice”

L’intervista alla scrittrice e filosofa Claudia Bianchi

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Proponiamo l’intervista a Claudia Bianchi, vincitrice della XIX edizione del Premio Biella Letteratura e Industria.

Il prestigioso riconoscimento, assegnato a un’opera di saggistica pubblicata tra il 1° gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021, è infatti andato al suo “Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio”, edito da Laterza. Ad assegnare la vittoria è stata la giuria presieduta da Pier Francesco Gasparetto e composta da Claudio Bermond, Paola Borgna, Ida Bozzi, Paolo Bricco, Loredana Lipperini, Sergio Pent, Alberto Sinigaglia e Tiziano Toracca. A moderare l’appuntamento è stato Matteo Caccia.

Viviamo in un’epoca in cui si scrive tantissimo. Non sempre bene.

Negli ultimi vent’anni c’è stata un’inaspettata amplificazione della scrittura, avvenuta grazie all’espansione della rete e dei social media, che ha portato spesso a un peggioramento della qualità dei contenuti e delle forme di quanto si scrive: informazioni scorrette, vere e proprie fake news, teorie cospirazioniste e, non ultimi, messaggi razzisti, misogini oppure omofobici.
Il linguaggio d’odio non comincia certo con internet, ma la rete ha caratteristiche che rendono virali e devastanti le parole d’odio: polarizzazione, distanza fisica, anonimato, sensazione di impunità.

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La copertina del libro

Proprio i social rappresentano il luogo del delitto rispetto allo “Hate Speech”.

Lo hate speech è diventato ancor più diffuso con i social media: le parole d’odio trovano nella rete un ambiente ideale per esprimersi, perché mancano mediazioni, filtri, censure o auto-censure. Il fenomeno delle parole d’odio online tocca in modo particolare le donne, da sempre fatte bersaglio di epiteti violenti, che spesso rimandano alla corporeità o alla condotta sessuale, e segnalano il peso del controllo sociale sulla sessualità delle donne, nonché la sostanziale riduzione delle donne alla loro sessualità.

Ci spiega cosa intende con “Hate Speech”?

Con il termine “Hate Speech” si indicano quelle forme espressive (parole e frasi, ma anche immagini, simboli, gesti, caricature, condotte) ostili e offensive, volte a causare danno a individui e gruppi storicamente oppressi e marginalizzati, identificati da caratteristiche sociali (reali o anche solo percepite) come appartenenza etnica, nazionalità, religione, genere, orientamento sessuale, disabilità.

Qualche esempio?

Gli esempi sono i più vari, da certe scritte sui muri, a certi striscioni o cori da stadio, dai discorsi di odio di certe formazioni politiche fino ad arrivare alla propaganda nazista e alle leggi sull’apartheid.

Chi rischia di essere “ridotto al silenzio”, oggi?

Sono gli individui che appartengono a gruppi sociali discriminati che vedono, oltre ai loro diritti, anche la loro possibilità di esprimersi e di far presa sulla realtà con le loro parole indebolita, e a volte del tutto annullata: vengono, appunto, “ridotti al silenzio”.
Questo può avvenire, ad esempio, quando le donne o gli appartenenti a minoranze etniche protestano contro dichiarazioni o azioni sessiste o razziste.
Testimonianze e proteste vengono spesso accolte e interpretate come lamentele e piagnistei, reazioni soggettive e manifestazioni di disagio, espressioni di stati personali che non possono aspirare a registrare fatti della realtà né a essere dibattute sul piano delle ragioni e vengono ignorate o ridicolizzate”.

Abbiamo citato i social, ma anche un certo giornalismo alimenta possibili campagne d’odio.

Questo è purtroppo vero e grave. È dovere dei giornalisti, e più in generale di chi ha posizioni di autorità, sorvegliare le proprie parole: nel libro cerco di mostrare che le nostre parole cambiano i limiti di ciò che può essere detto, spostano un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, scontato, legittimo.
E questo soprattutto se a parlare sono individui con posizioni istituzionali, o giornalisti con forte responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica.

In estrema sintesi, scrive: “Ciò che si può dire, si può fare”. È terribilmente pericoloso.

Le parole d’odio, almeno quelle che non vengono pubblicamente messe in discussione, sono oggetto di un’implicita legittimazione, di una autorizzazione tacita, e questo rende più accettabili ulteriori messaggi razzisti, sessisti, omofobici.
Se accogliamo gli usi offensivi di altri con il silenzio, l’indifferenza o la superficialità corriamo il rischio di trasformarci in complici del linguaggio d’odio. E la mancanza di attenzione sulle parole può rendere più accettabile la mancanza di vigilanza sulle azioni”.

E ancora, scrive: “Omofobia, razzismo, e misoginia sono modi di odiare in branco”. Perché?

A differenza degli insulti generici che sono indirizzati verso individui in virtù di qualcosa che hanno fatto, le parole d’odio razzista, omofobico e misogino sono scagliate contro individui in virtù di qualcosa che sono in virtù di certi tratti sociali. Si tratta cioè della faccia sociale del linguaggio d’odio, dell’espressione dell’odio di gruppi sociali nei confronti di altri gruppi sociali, del modo per costruire o rafforzare gerarchie e asimmetrie, del modo, appunto, per odiare in branco.

Scrive: “Le parole ci dicono chi siamo”. Siamo ancora alle cento parole di un operaio contro le mille del padrone, di Don Milani?

Sì, quella di Don Milani è una delle affermazioni che meglio mette in relazione parole e potere”.
Analizza molto, e molto bene, il linguaggio della pornografia. Che di fatto erotizza stupri, violenze, abusi e quindi subordinazione e sottomissione. Quanto e come si deve lavorare, nelle scuole, ma non solo, per una corretta educazione sessuale?
Certa pornografia, quella degradante e violenta che erotizza la violenza e la coercizione, contribuisce a diffondere stereotipi negativi e pregiudizi dannosi sulla “natura” e i comportamenti di donne e uomini e può condurre a distorsioni e danni nelle situazioni comunicative legate alla sfera sessuale.

Solo nella pornografia?

No. Sono tante le forme espressive, di intrattenimento o di cultura popolare (televisione e pubblicità, narrativa e cinema, riviste, canzoni) che possono diffondere pericolosi stereotipi, come la credenza che i “no” proferiti dalle donne non contino come tali, ma siano modi per fingere ritrosia, o addirittura per sedurre. Pornografia e cultura popolare hanno il potere di rinforzare stereotipi e pregiudizi all’interno di un dominio particolare, quello sessuale, sul quale molti individui, in particolare i più giovani, di fatto le attribuiscono una certa autorità e competenza, soprattutto in assenza di autorità concorrenti (educatori, scuola, genitori). È necessario educare ragazze e ragazzi non solo alla sessualità ma più in generale all’intimità. Un’educazione che passa anche dall’imparare a identificare e criticare stereotipi e pregiudizi, dall’attribuzione di riconoscimento e valore a individui e minoranze ingiustamente discriminati, dal sostegno alle lotte in difesa dei diritti civili.

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