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Miglioriamo partendo dalle parole

Tra le righe, la rubrica di Enrico Neiretti

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Qualche giorno fa, proprio allo scadere del 2022, è stata pubblicata su queste pagine un’intervista del giornalista biellese Paolo La Bua alla vincitrice della XXI edizione del “Premio Biella Letteratura e Industria”, la filosofa e scrittrice Claudia Bianchi.

Lo scorso 19 novembre infatti, si è svolta la cerimonia conclusiva del premio, che ha visto appunto la vittoria dell’opera “Hate speech – Il lato oscuro del linguaggio”, un libro edito da Laterza.

Claudia Bianchi, professoressa di Filosofia del linguaggio presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, in questo suo lavoro indaga sul linguaggio dell’odio che ammanta troppo spesso la comunicazione sociale e che -purtroppo- arriva persino a forzare i confini della percezione della liceità di comportamenti discriminatori e violenti.

Quella del linguaggio è infatti una dimensione tutt’altro che accessoria nelle dinamiche umane; soprattutto quando un linguaggio aggressivo e tendente alla sopraffazione viene usato da chi detiene qualche tipo di potere, esso determina un cedimento della dimensione di rispetto che dovrebbe regolare i rapporti personali, e legittima azioni di vera a propria oppressione, persino di violenza.

E’ purtroppo nell’esperienza di ognuno la constatazione della deriva del linguaggio: frasi e commenti sessisti, razzisti, omofobi, discriminatori sono ahimè all’ordine del giorno, turbano la sensibilità di coloro che vorrebbero vivere in una società autenticamente civile, eccitano gli animi di personaggi non educati al rispetto (per usare un eufemismo), e -cosa più grave di tutte- marginalizzano e mettono in pericolo le persone oggetto di tali attacchi.

C’è nell’uso delle parole una grande responsabilità: soprattutto chi si occupa di comunicazione, soprattutto chi riveste qualche carica di visibilità pubblica, deve essere cosciente del peso delle proprie parole.

Ma in tempi come quelli che viviamo, in cui la comunicazione sui canali social è un fiume impetuoso che investe tutti e tutto, che scorre veloce, che amplifica in un boato potente ogni cosa, ecco, in tempi di comunicazione di massa nei quali ognuno diventa -spesso addirittura inconsapevolmente- autore, questa responsabilità nei confronti di ciò che si dice riguarda tutti quanti.

Invece sembra che il processo sia proprio l’opposto, pare che la dimensione “dematerializzatata” dei media informatici sia uno scudo, una maschera, un filtro che permette ogni tipo di presa di posizione senza il pensiero della sua portata, in una convinzione di gradassa impunità.
Io sono un fruitore abbastanza assiduo dei social network: credo che questo modo di comunicare abbia tantissime potenzialità, una su tutte la possibilità di abbattere i confini angusti delle relazioni di prossimità e di permettere di ampliare la propria comunicazione e la propria sfera relazionale sostituendo la contiguità territoriale con la comunanza di interessi e di visioni. E questo è senz’altro un aspetto positivo, che se ben gestito può portare addirittura ad un arricchimento della propria vita.

Ma lo strumento è tanto potente quanto pericoloso; il fatto che un messaggio scritto possa varcare la soglia degli ambienti in cui ognuno opera e vive dovrebbe obbligare a grande attenzione nell’uso del linguaggio. E ad una semplice, fondamentale, ma purtroppo quasi sempre disattesa considerazione: i destinatari di frasi e commenti sono sempre persone, con le loro vite, con la loro sensibilità, con il loro sacrosanto diritto al rispetto.

Invece è pratica assai diffusa quella del paternalismo, della spocchia, dello sberleffo, dell’aggressività, per arrivare persino all’insulto.
Ecco, la premiazione di un’opera di saggistica dedicata a questo tema sottolinea l’urgenza di richiamare ognuno alle proprie responsabilità nell’ambito relazionale.

Il linguaggio è la base delle relazioni umane e siamo tutti coinvolti nel compito di migliorare la società in cui viviamo. Magari partendo proprio dalle parole.
Enrico Neiretti

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