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Tra le righe

Siamo uomini o contabili?

La rubrica di Enrico Neiretti

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Qualche giorno fa ho condiviso sulla mia pagina Facebook un post del periodico “L’Espresso” che rimandava ad un’intervista a Giuseppe Morici, manager, saggista e vicepresidente del Gruppo Feltrinelli, il cui titolo recitava: «Oggi servono i filosofi a capo delle aziende, non gli economisti».

Ho condiviso l’articolo senza nessun commento da parte mia, senza alcuna introduzione, senza svelare anticipatamente né il mio punto di vista, né la ragione per cui quelle parole mi avevano incuriosito.

Generalmente quando condivido articoli di una fonte esterna registro ben pochi feedback, men che meno commenti in calce al post di condivisione. Invece questa volta ho constatato un notevole interesse, suffragato da una serie nutrita di cosiddetti “like” e da una consistente sequela di interventi di commento a favore oppure in contrasto con la tesi proposta da Morici.
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In realtà devo dire che anche i commenti più critici mostravano un certo interesse verso la visione alla base dell’intervista, al più tacciata di essere irrealizzabile o di non fare i conti con le vicende assolutamente prosaiche che costellano la vita di un’azienda.

Ecco, a questo punto sono intervenuto anch’io cercando di spiegare il mio punto di vista e anche il perché quel titolo piuttosto provocatorio -che tentava di introdurre una sorta di predominio della filosofia versus le competenze tecniche in un ambito invece considerato meramente tecnico- mi avesse così tanto incuriosito.

Confesso subito di essere sempre fortemente affascinato da ogni tentativo di destrutturazione dei vari contesti in cui vivo. Fatta salva la competenza tecnica necessaria per svolgere efficacemente molti mestieri, ritengo che un approccio capace di mettere in discussione la rigidità dei ruoli sia un punto di vista assolutamente utile sia alle organizzazioni, che proprio in una sorta di “rimescolamento delle carte” hanno l’opportunità di rinnovarsi, sia -soprattutto- per le persone nella loro veste lavorativa, perché far parte di un contesto in cui il cambiamento è visto come fattore positivo apre a molte possibilità.

Ed è proprio l’aspetto personale, ovvero la supremazia della persona rispetto al ruolo che essa ricopre, ad interessarmi molto e ad aver fatto sì che io fossi così incuriosito alla breve intervista di cui sopra: credo sia inconfutabile il fatto che -lodevoli eccezioni a parte- nelle aziende l’aspetto personale sia troppo spesso bistrattato, che le peculiarità di ognuno vengano trascurate, che la specificità fatta di competenze non codificate, di bisogni particolari, di potenziali contributi unici non sia quasi mai considerata.

Ed è altrettanto innegabile il fatto che raramente le imprese e le organizzazioni sono capaci di darsi un orizzonte di senso nel quale le persone chiamate a collaborare si possano riconoscere.

Ecco, io sono convinto che questo sia uno dei grandi problemi del mondo del lavoro oggi: in una società complessa, fatta di persone con buona scolarità, curriculum spesso ricchi, visioni non di rado molto più ampie di quelle che la loro mansione prevede, persone che vivono esistenze con necessità di gestione non sempre compatibili con quella rigidità di orario e di organizzazione del lavoro che ancora oggi è una specie di dogma, insistere su una visione meramente economica dell’impresa, sorda e cieca di fronte ai bisogni, alle richieste, alle potenzialità di contributo che vengono dalle persone che lavorano al proprio interno, sia indice di una visione di vertice piuttosto confusa, distorta e autorefenziale. Una visione che secondo me è l’origine dei tanti problemi relazionali tra aziende e maestranze che oggi sono all’onore delle cronache: dal fenomeno delle “grandi dimissioni” alla difficoltà nel reclutare giovani lavoratori, fino ad arrivare ai forti tassi di infelicità sul lavoro evidenziati da parecchi studi specifici, il destino del lavoro come lo abbiamo conosciuto sinora sembra piuttosto incerto.

In questo senso io credo che la “provocazione” di Morici (e di molti come lui) sia assolutamente centrata. Bisognerebbe mettere un po’ da parte il goffo cinismo con cui molti accolgono stimoli culturali come questo ed iniziare a ragionare davvero – sì, anche attraverso l’aiuto della filosofia- su cosa significa davvero disegnare rapporti personali all’interno delle organizzazioni.

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