Seguici su

Tra le righe

Le parole hanno un senso

Tra le righe, la rubrica di Enrico Neiretti

Pubblicato

il

enrico neiretti

Tanti anni fa, durante un colloquio di lavoro, il dirigente che mi stava esaminando, dopo aver passato sommariamente il mio -invero- scarno curriculum, alzò lo sguardo, mi fissò per un istante e mi chiese: «Mi dica, ma lei prova passione per le lavorazioni meccaniche?». Devo dire che mi ritrovai piuttosto spiazzato da quella domanda; capivo dove il machiavellico esaminatore volesse andare a parare, ma sinceramente tendevo a collocare il concetto di passione in ambiti piuttosto distanti da quello delle lavorazioni meccaniche. E a fare una dichiarazione del genere mi sarei sentito stupido ancor più che disonesto.

Sicché biascicai qualcosa, cercai di spostare la conversazione sul terreno dell’interesse e della voglia di imparare, e tutto sommato fui abbastanza convincente tanto che poi fui assunto pur senza aver fatto la professione di passione. Erano gli anni ’90 e certe iperboli linguistiche erano ancora bel là dal venire. Soprattutto nel Biellese, soprattutto in una piccola industria manifatturiera dove la mentalità era ancora piuttosto rocciosa e le parole scarne. Va detto che quel dirigente rappresentava la casa madre della fabbrica che aveva sede nel milanese; forse era in anticipo sui tempi.

Già, perché negli anni a seguire quell’impropria accezione del termine passione è diventata una costante, una specie di passe-partout per cercare di camuffare le spesso scarse attrattive di taluni lavori. Io ho continuato a collocare la passione in ambiti diversi, nel discorso amoroso, nel brivido dei sensi, al più in qualche attività ludica o sportiva. O magari in espressioni nobili come l’arte, la musica, la lettura. E invece no, ormai la passione viene snidata dalle carezzevoli mollezze amorose e trapiantata forzatamente in attività lavorative, spesso assai prosaiche. Sicché non c’è imprenditore, o sedicente tale, che non invochi la “passione” per il lavoro, che oggi i “giovani” non avrebbero più.

Ma quella del travalicamento di senso del termine “passione” è solo una delle tante torsioni semantiche a cui le parole sono sottoposte nella convulsa comunicazione di oggi. Soprattutto in ambito professionale -di nuovo- le parole subiscono di continuo un’erosione di senso e una ripetizione incontrollata che le rende vuote ed indigeste.

Ogni volta che mi imbatto, leggendo una email di lavoro o un documento, nel termine-esortazione “urgente”, magari persino scritto in maiuscolo a simulare un urlo, provo un bruciante fastidio. Quella dell’urgenza è ormai una richiesta fissa, una specie di nevrosi collettiva che a me richiama semplicemente un effetto “al lupo, al lupo!”. C’è poi il corollario del minaccioso termine “urgente” che è l’ancor più feroce “tassativo”. E si noti che non stiamo parlando di operazioni chirurgiche o di trapianti di organi, ma di normalissime forniture commerciali dove l’urgenza non dovrebbe proprio essere contemplata, figuriamoci la minacciosa esortazione alla tassatività.

E poi ancora c’è il “merito”, il nuovo paradigma di organizzazione della società, l’invocazione del criterio misurabile e classificabile della bravura delle persone, il fondamento di una nuova forma sociale basata sulle abilità: la “meritocrazia”. Caspita, davvero uno scenario da leopardiane magnifiche sorti e progressive: «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive».

E così, in questa travolgente cavalcata che in realtà travolge soltanto il senso delle parole, si arriva all’onnipresente “eccellenza”. Ormai non c’è più luogo, lavoro, produzione, oggetto, coltivazione, materiale, che non si meriti questo titolo: “eccellenza”!
Non più qualcosa di bello, di buono, di interessante, di ben fatto, di funzionale. No, tutto deve essere eccellente, tutto deve svettare per qualità, gusto, esecuzione.

Ora credo che a tutti piacciano le cose belle, che tutti desideriamo organizzare in modo efficiente le nostre attività, che tutti ci aspettiamo che un lavoro ben fatto sia apprezzato e premiato.
Ma non sarebbe il caso di frenare un po’ con queste iperboli linguistiche e di tornare ad esprimersi con termini aderenti alla realtà, capaci di raccontare davvero le situazioni a cui si riferiscono?
Perché l’effetto di questa deriva di senso e di significato non è soltanto il fastidio che essa provoca in chi crede ancora al ruolo delle parole, ma è qualcosa di più: una ridicola banalizzazione dell’agire umano, una sorta di sciocca celebrazione di un mondo che non esiste.

Continua a leggere le notizie de La Provincia di Biella e segui la nostra pagina Facebook

E tu cosa ne pensi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *