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Biella

Nessun colpevole per l’inferno di Ioan, uscito dal carcere scheletrico e in fin di vita per un tumore non diagnosticato

Tre assoluzioni perché “il fatto non sussiste” e un non luogo a procedere. Si è concluso così il processo per la morte di Ioan Gal.

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Tre assoluzioni perché “il fatto non sussiste” e un non luogo a procedere. Si è concluso così il processo per la morte di Ioan Gal, scomparso a 51 anni poco tempo dopo essere uscito dal carcere, ucciso da un tumore che non gli era stato diagnosticato subito e che aveva iniziato a consumarlo quando ancora stava scontando la sua pena.

Sul banco degli imputati, in seguito all’esposto presentato da un ex compagno di cella che lo aveva assistito prima dentro e poi fuori dal carcere, erano finiti quattro medici. L’accusa era di omicidio colposo. A occuparsi delle indagini erano stati i carabinieri della polizia giudiziaria, diretti dal luogotenente Tindaro Gullo e coordinati dal procuratore capo Teresa Angela Camelio.

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Era l’estate del 2016 quando Ioan Gal contattò il nostro giornale mentre si trovava ricoverato all’Hospice “L’Orsa Maggiore”: «Mi chiamo Ioan Gal, sono in fin di vita e vorrei raccontare la mia storia”.

Più che una storia sembrava un incubo quello vissuto dall’uomo di 51 anni. Voleva raccontare la sua versione dei fatti. Originario di Timisoara, in Romania, negli ultimi anni aveva vissuto a Torino. Non conosceva Biella, non sapeva che la struttura nella quale si trovava era quella riservata ai malati terminali. Tuttavia si rendeva conto che gli restava poco da vivere.

Un cancro lo aveva letteralmente consumato. In pochi mesi, caratterizzati da sofferenze e dolori atroci, Ioan aveva perso circa venti chili. La storia che voleva raccontare, però, non era quella di un semplice paziente, ma quella di un uomo che si ammala mentre è recluso in carcere.

Fino a poco tempo prima, infatti, Ioan Gal era stato detenuto nella casa circondariale di via dei Tigli, dove doveva scontare un anno e quattro mesi di reclusione per tentato furto. Pena alla quale si erano poi aggiunti altri cinque mesi per una seconda condanna. Proprio qui, a suo dire, era iniziato il calvario.

Quando a giugno aveva finito di scontare la pena e si era aperto il cancello, Ioan non era stato in grado di tornare alla propria vita. Non si reggeva in piedi, stava male. Tanto da rendere necessario l’intervento di un’ambulanza del 118, chiamata dagli stessi agenti della polizia penitenziaria, e il trasporto all’ospedale.

Durante il ricovero al “Degli Infermi”, durato alcune settimane, era stato sottoposto a diversi accertamenti che avevano portato a scoprire quale fosse il male che lo attanagliava e gli rendeva l’esistenza impossibile da mesi. Gli era stata diagnosticata la sindrome di Ciuffini-Pancoast, tecnicamente una “lesione solida da carcinoma adeno-squamoso polmonare ed infiltrante piani muscolari-ossee vascolari, della parete toracica, con paralisi flaccida e algia severa alla spalla e al braccio destri”.

«Alla fine del 2014 sono stato trasferito dal carcere delle Vallette di Torino a quello di Biella – ci raccontò –. All’inizio le cose andavano bene. Ero sano, pieno di vita, avevo anche iniziato a svolgere qualche lavoro all’interno della struttura».

La situazione cambiò all’improvviso, drasticamente, nel mese di giugno del 2015. «Ho accusato un forte mal di testa per un paio di giorni – spiegò durante l’intervista – poi in infermeria mi hanno dato qualche pastiglia e mi è passato. Nel giro di poco, però, il dolore è sceso verso la spalla ed è peggiorato. Due o tre giorni dopo, il braccio destro, dal gomito alla mano, mi faceva male da morire».

Le condizioni di Ioan precipitarono rapidamente: «Stavo malissimo giorno e notte, a settembre praticamente non riuscivo più a muovere il braccio, faticavo a camminare, non dormivo, non ero più in grado di prendermi cura di me. L’unico sollievo erano gli antidolorifici che però mi davano quando volevano loro».

Passarono i mesi e Ioan non migliorò. Un gruppetto di detenuti, vedendo la sua sofferenza, si organizzò per dargli una mano. Uno lo aiutava per il cibo, un altro gli lavava i vestiti, un altro ancora lo accompagnava e letteralmente lo sosteneva quando doveva spostarsi. Negli ultimi tempi l’amministrazione penitenziaria, viste le sue condizioni, decise pure di affiancargli un “piantone”, un altro recluso pagato per assisterlo.

«Lo stato di salute di Ioan era grave, chiunque era in grado di accorgersene – ci disse Eugenio Maiolo, ex detenuto che una volta uscito dal carcere aveva continuato ad aiutare il 51enne -. Passava le notti a urlare e a lamentarsi per il dolore. Qualcuno doveva fare qualcosa e invece non è stato fatto nulla».

In realtà esami e accertamenti c’erano stati, anche con controlli specialistici all’ospedale, ma non si erano rivelati affatto risolutivi. Altri erano in programma a pochi giorni dalla sua uscita dal carcere: «Ricordo un paio di visite effettuate fuori dalla struttura – chiarì Gal -, una dall’ortopedico e un’altra per un’elettromiografia. Poi mi facevano i raggi. Ma avevo bisogno di controlli ulteriori, di un ricovero, invece niente. Per mesi nessuno ha voluto capire davvero cosa avessi fino a quando sono uscito e sono stato ricoverato. Dove sono adesso sto bene e si prendono cura di me. Nel frattempo ho vissuto l’inferno. Quando sono entrato in carcere pesavo circa 65 chili, quando mi hanno liberato ero sceso a 40».

Eppure Ioan sosteneva di averci provato in tutti i modi a ottenere maggiori “attenzioni”, si sentiva abbandonato a se stesso: «Ho anche presentato una denuncia ad agosto del 2015. Non pretendevo di guarire, ma almeno di essere curato come si deve. Chiedevo che venisse fatto qualcosa per alleviare l’insopportabile dolore. Ero un detenuto, ma pensavo comunque di avere il diritto di essere curato. Alla fine non sapevo nemmeno più dove fossi o con chi stessi parlando. Perché in tutto questo tempo, viste le mie condizioni, non è stato possibile scoprire che avevo un tumore?».

La rabbia di Ioan era rivolta solo ai responsabili dell’area sanitaria, indipendente dall’amministrazione della casa circondariale.

La nota positiva, infatti, era stata rappresentata proprio dal comportamento del personale della polizia penitenziaria: «Gli agenti e gli assistenti – confermò Ioan Gal –, così come gli infermieri, hanno fatto tutto il possibile, tutto ciò che era in loro potere. Cercavano di aiutarmi».

A Ioan erano rimaste solo una grande amarezza e la sensazione di aver subito un grave torto: «Non dico che se fossi stato ricoverato prima sarei guarito – aggiunse -, magari mi troverei nella stessa identica situazione. Però mi sarebbero stati evitati mesi di incredibili sofferenze. Voglio giustizia».
red.cr.

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